San Giorgio
Romina l’avevo conosciuta sulla circumvesuviana. Era arrivata sul treno piena di buste colorate, si era seduta chiedendo permesso, teneva stretto in mano come un bouquet il biglietto Unico Campania. Quando aveva preso il lettore mp3 dalla borsetta lasciando la cerniera aperta avevo trovato modo di parlarle, ma quella non aveva accusato proprio come mi sarei aspettato. Mi sarei aspettato Romina che sorride, Romina che diventa rossa, Romina che si passa i capelli dietro le orecchie, Romina che dice grazie, Romina che mi chiede di proteggerla fino all’arrivo del treno a Poggiomarino e poi di tornare indietro nei cessi della ferrovia. Avrei potuto dirle pure di non tenere la testa sul finestrino che stava tutto inzivato e si sarebbe sporcata i capelli, e i suoi capelli si vedeva che erano puliti ma non penso che m’avrebbe sentito perchè teneva il lettore mp3 così alto che lo sentivo pure io, che la canzone poi dopo un po’ me l’ero imparata a memoria, io ho l’orecchio musicale, ho fatto la sperimentazione musicale alle scuole medie, mentre gli altri imparavano inglese e francese, io imparavo francese e pianola bontempi. Di francese non imparavo un cazzo comunque, tenevamo un libro che si chiamava Journal e una professoressa con tre nomi che era stata una volta a Parigi veramente e in classe aveva raccontato di aver conosciuto un noto cantante jazz e io sulla botta avevo risposto: “sì, Giggione”, cosicchè la stronza mi aveva preso ad occhio e pure che mi ero imparato tutta la leçon 12 compresa la parte in cui il preside si veste da E.T., pure che con il raffreddore la erre aspirata su “incroyable” mi era venuta benissimo, mi aveva messo mediocre al giudizio finale. Dopo un po’ si erano fottuti pure la pianola bontempi e la sperimentazione della mia sezione si era limitata a “fa-sol-la-do-do-re-do-la-fa-sol-la-la-si-la-sol” fatto con il flauto. Ma la canzone che stava sentendo Romina l’avrei potuta cantare, specialmente nella parte che diceva “e tra quale gente ti confondi dietro quale volto mai tu ti nascondi” e “dentro quale squallida stazione, dietro che maledettissimo portone”, perchè erano cose che mi piacevano, specialmente la parte della squallida stazione che mi pareva molto somigliante e aderente alla realtà della stazione dove scendevo io.
Romina all’altezza di Santa Maria del Pozzo aveva preso il telefonino e io avevo letto sul display bianco illuminato il nome suo, che era un nome che mi era sempre piaciuto, avevo approvato il modo in cui i volumi del suo viso trovavano spazio nelle sillabe, mi pareva, soprattutto, che il suono Ro+mi+na fosse l’alloggiamento adatto e giusto di certe caratteristiche che mi piacevano tanto. Per questo motivo avevo sempre odiato i nomi troppo corti o troppo tondi, mi pareva non lasciassero spazio all’immaginazione insita nella lingua, che non mi dessero indizi e punti di partenza per cominciare a costruire un profilo tipo della persona che avevo davanti. Come ci si sentiva a chiamarsi Romina? A scuola mi piaceva tanto Marianna, per esempio, e io mi stupivo sempre di come suonava il suo nome detto nell’appello della prima ora, e di come potesse cambiare a seconda dell’accento dei supplenti. Allo stesso modo, ero stupito dalla riconoscibilità di quelle sillabe, dal fatto che Marianna riusciva a girarsi sempre a tempo quando venivano pronunciate mentre me, me mi potevi chiamare Nicola anche venti volte, potevano passare minuti prima che i miei muscoli riconoscessero lo stimolo e decidessero di rispondere. Forse il nome che m’avevano dato i miei genitori non era quello giusto, forse per questo motivo non avevo preso latte da mia madre e m’avevano dovuto dare quello della Humana. Forse non mi ero riconosciuto, ecco tutto. Marianna, invece, era un nome giusto per i denti da coniglietto, per le lentiggini, per la frangetta a parasole, per il villino in campagna vicino alla statale, per le scrofe nel cortile, per l’uovo fresco.
Romina adesso parlava al telefono del fatto che stava per arrivare e un certo Franco doveva andarla a prendere. Questo Franco non doveva essere un grande tipo perchè s’era messo a fare storie dall’altra parte del telefono, o forse aveva chiuso direttamente, che Romina aveva dovuto chiamare di nuovo e dire: “io San Giorgio non la conosco, non ci sono mai venuta, dove cazzo vado?”. Adesso, quando uno parla a telefono e bestemmia di solito mi faccio i fatti miei ma la parola cazzo a Romina stava bene in bocca. “Che cosa? – stava dicendo adesso – Mi dici tu come è fatta una opel kadett? Eh? Senti, facciamo una cosa, dimmi che colore è”. Io lo sapevo che un giorno la circumvesuviana mi avrebbe mangiato il cuore, lo sapevo adesso a vedere riflesso negli occhi chiari di Romina l’inabilità a riconoscere modelli automobilistici che m’aveva fatto passare per ricchione per i tre anni di Ipsia. Quando mia madre mi chiama certe volte faccio finta di non sentire, allora mia madre dice sempre “Nicò, fatt’accatta a chi nun te sape” come a dire che solo uno che non mi conosce può pensare che sono uno buono. Romina non mi sapeva e forse potevo farmi accattare da lei e l’opel kadett era una macchina semplice dopotutto, pensavo mentre scendevo pure io a San Giorgio e per la prima volta il fatto di farmi comprare da uno che non mi conosceva aveva più vantaggi che svantaggi.