Classifica degli amori metafisici, posizione dieci
La prima volta che mi si spezzò il cuore a metà era febbraio 1996. Io avevo tredici anni, lui ventisette, io ero una bambina precoce, lui uno dei Take That. Il tenero Mark Owen dagli infiniti sorrisi che ti facevano pensare ad una paralisi e invece no, lui era proprio così, bello e gioioso. Un effetto simile me l’avrebbe fatto, anni dopo, solo un tizio molto alto con cui lavoravo.
All’epoca internet non era ancora il fido animale domestico che noi tutti conosciamo quindi quando si diffuse la notizia dello scioglimento della band partì un tam tam di radio e fanzine, fantomatiche riviste ufficiali inglesi al costo di settemila lire, ogni mese era un furto in nome della conoscenza, della prossimità, quanto meno visiva.
C’erano gli annunci: gente che vendeva a prezzi esorbitanti rullini di fotografie a semidetached house spacciandole per case natali di Gary e Robbie. Io stessa ho pagato per un numero di telefono inglese e dalla camera da letto dei miei ho mormorato nella cornetta: Hello, this is Raffaella, could I speak to Mark?
Mark, invariabilmente, non lo conoscevano proprio. Potevo tornare a leggere Madame Bovary nella mia stanza e sul letto a castello, le gambe a ciondoloni, non preoccuparmi di come tradurre l’indirizzo di casa mia in inglese.
Non ricordo quale grande marca mise un concorso: spesa una certa cifra nei negozi della catena, si partecipava di diritto all’estrazione di sagome di cartone dei componenti della band. Sagome. Ad altezza naturale. Una prova fisica, seppure bidimensionale. Perseguitai mia madre che sfiancata mi portò al negozio: la prima minigonna della mia vita – di velluto, nera, una cosa infinitesimale – e un maglione bianco che al primo lavaggio perse due taglie. E così abbigliata, coi capelli cortissimi, presenziai tutte le feste di Natale, mi portai persino in chiesa per il coro delle voci bianche (perché sì, io e Mark dovevamo avere qualcosa in comune, qualcosa che valicasse la differenza d’età, e cosa meglio della passione per il canto?)
Mark arrivò a casa mia un pomeriggio dopo una sofferta trattativa: io avevo vinto sì, ma avevo vinto Gary il biondo. Gary il biondo nato sotto il segno del capricorno non lo volevo mica. Così misi in moto le mie capacità d’indagine attivissime già all’epoca e rintracciai la ragazza cui era stato assegnato il mio Mark acquariano. Fui tanto persuasiva da convincerla: tra me e lui c’era un legame troppo forte, avere la sua sagoma non l’avrebbe aiutata.
E poi, la catastrofe. Sanremo 1996. Non avevo ancora digerito l’allontanamento di Robbie e adesso Mark scendeva le scale del teatro Ariston e veniva a dirmi che si, unfortunately, quella sarebbe stata l’ultima volta assieme. Cazzo, non dire sfortunatamente, Mark. Non dire unfortunately con il tuo piegatissimo accento di Manchester. E togliti quel sorriso dalla faccia miseria eva mentre mi getti nel nulla dell’adolescenza assieme ai tuoi compagni. Il vostro scioglimento è la prova provata della fine di ogni cosa, non venire a parlare di sfortuna a me che ho anche la tua sagoma e la tua maglietta e le tue foto di quindicenne e tutti i vostri album orginali e il video del concerto alla Wembley Arena e ottimi voti in inglese perché un giorno io e te dovremmo parlare faccia a faccia. Non farmi quegli occhi dolci, cazzo, ho anche fatto la preiscrizione al liceo linguistico
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Comunque io ieri sera i Take That a Sanremo non li ho visti: mentre Mark e compagni Robbie compreso calcavano il palco io ero a presentare un libro e a parlare di camorra e di paure che liberano e dettagli che permettono di ricordare, staccare una storia, una sola, dalla matassa della memoria. Molte cose sono cambiate: ho superato l’adolescenza quasi indenne (ho detto quasi) e ho scoperto che i rapporti possono essere ricuciti, lontano dalla testarda idea di dover dare un senso e un inizio e una fine alle cose. L’inglese mi è utile anche se non contrarrò matrimonio con un abitante del Regno Unito.
Ma mi hanno detto che Mark, ieri sera, aveva una sciarpetta triste e non sorrideva.
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