Cliffhanger

Venne fuori che per vivere avevamo bisogno di soldi, venne fuori così, una mattina che era luglio. Luglio, a casa nostra, era un mese come un altro, non fosse stato per la palatale data dalla gl finale manco ce ne saremmo accorti. Abitavamo nel sottotetto, noi sentivamo caldo a cominciare dal mese di marzo, non portavamo la canottiera dal dicembre millenovecentottantanove. Personalmente avevo il timore del primo sole, quando al Tg2 facevano i servizi sulla primavera imminente io prendevo il telecomando e giravo su Forum. Mi rassicuravano i lineamenti impietriti di Santi Licheri, la giustizia fredda e lucida come lama di coltello. Quando richiamava l’ordine nello studio televisivo battendo tre volte il martelletto sul piano rialzato era di nuovo gennaio.

Se mio padre era a casa, cambiare canale diventava un’operazione complessa. Il telecomando stava libero da impedimenti sulla tovaglia, ma una forza nera a cui non sapevo dare nome me ne impediva l’uso. Mi dispiaceva, forse, distrarre quell’uomo dai suoi sogni. Costume e Società rappresentava, per lui, l’ultima prova dell’esistenza del socialismo. Lo proiettava indietro nel tempo, gli faceva le spalle più dritte, i denti mossi leggeri e voraci sul pane e salame che stavamo mangiando. Avevamo contato quattro fette a testa, lui riusciva sempre a rubarne un paio dal piatto di mio fratello. Non si nascondeva neanche più, si giustificava pure dicendo che i tempi stavano per cambiare e lui aveva bisogno di mantenersi fresco e tosto, e in attesa. Solo quando Luciano Onder ci informava dei rischi del colesterolo e dell’esigenza di una dieta ricca di frutta e verdura di stagione, la facoltà di usare il telecomando era di nuovo mia. Ricominciavo a respirare, schiacchiavo i tasti di fretta, a riparare il danno inferto al mio sistema di refrigerazione. Se Santi Licheri s’era già ritirato per deliberare, ero, forse, ancora in tempo per l’ultimo cliffhanger di Beautiful.

Il cliffhanger sarebbe la scena finale, non so se l’avete presente tutti: è quell’inquadratura in primo piano, in cui il protagonista sta per dire qualcosa, o fare qualcosa, apre la bocca e muove il braccio, ma a finale non fa e non dice niente e lo schermo si fa nero che avreste voglia di buttarci contro una pantofola. La puntata si chiude sul dramma inenarrabile dell’indecisione. La volta successiva ritrovate il personaggio fermo, bloccato come se avesse avuto un ictus. Per sapere cosa gli è successo, dovrete aspettare ancora un paio di giorni, intervallati dalle indecisioni di altri e dai loro repentini cambi d’umore. Dopo le prime venti puntate imparerete la lezione, saprete tenere il conto delle questioni appese come panni ad asciugare e apprezzerete il cliffhanger come il limite più sincero tra ciò che è e ciò che è possibile. L’attimo zero in cui le probabilità vi ruotano intorno, e i sentimenti degli attori coinvolti sono forza motrice di cui vi partecipate: siete Brooke e Ridge, siete Nick Marone, e non sapete chi è vostro figlio. Siete Amber e partorite nel deserto, Rick non arriverà in tempo, il bambino avrà la pelle bianca?

Beautiful era arrivato alla 3234esima puntata. Avevo cominciato a guardarlo assieme a mia nonna e sullo schermo Taylor saliva al cielo, vittima di una malattia fulminante, contagiata dal barbone che aveva trovato all’angolo della strada. Avevamo visto Taylor farsi gialla d’itterizia e poi bianca di morte certa, e poi nerissima sotto gli occhi, e ancora l’avevamo vista uscire e rientrare dal reparto di terapia intensiva, ricoverata e poi dimessa. Ed era, poi, ascesa al cielo e Gesù le aveva mostrato i dettagli del suo funerale montati veloce come in un videoclip, lei aveva visto suo marito piangere e aveva, infine, compreso il suo grande amore, quindi era ridiscesa in terra per un ultimo bacio ed lì era rimasta a metà, ferma nell’ictus del colpo di scena. Più o meno a metà dell’infermità di Taylor, s’era ammalata anche mia nonna. L’avevamo portata in ospedale, i medici le avevano fatto certe analisi e tenuta una notte in osservazione. Poi l’avevano dimessa e detto di ritornare dopo un paio di giorni. Nonna s’era impressionata. Mangiava con la testa bassa, china sul piatto di pastina tempesta, gli occhi lucidi riflessi tra i filamenti acquosi del burro. La faccenda del Day Hospital non l’aveva capita bene, e mentre salivamo la strada ripida che portava all’accettazione aveva, infine, tirato mio padre per la manica della giacca e gli aveva detto, fra le lacrime: Robbè, però nun facimm comm’ a Taylòr.

 

[Questo racconto ha vinto il Born to write lo scorso anno. Per continuare a leggere scaricate da qui l’intera antologia edita da Marcos y Marcos]