L’ultima luna

Non potevi mica scegliere. C’era. Un po’ come l’odore di acqua ragia o i fogli di compensato, le mattonelle sbrecciate in certi punti dal taglierino, e un particolare tipo di scotch, prodotto in serie dalla Pezzullo, bianco e blu, con i formati di pasta disegnati sulle bande. Tutte queste cose dicevano: quello che vedi non ha solo un giorno di vita.
Se casa è un posto qualunque dove vorresti tornare, allora quella era casa mia. Io che ero una bambina bionda di cinque anni con la frangetta tagliata storta da mia madre (me sulle punte, davanti allo specchio del bagno), facevo il gioco preferito del sabato: restare immobile davanti a mio padre che mi faceva il ritratto. Non ritraeva sempre me, no. Ero il modello preferito di proporzioni naso bocca occhi. Ero chiunque. E riuscivo a restare ferma impassibile statua per ore. Dalla cucina tutta azzurra (il calendario di Nostradamus dietro gli scuri del balcone) veniva odore di pasta e piselli e di quell’acqua di colonia che si usa per i bambini piccoli. Il bambino era, in questo caso, mia sorella, detta anche scimmia perché s’appendeva a tutto. Il resto erano stanze belle grandi e belle vuote che i miei non avevano granché da metterci dentro. Con Lucio Dalla tutto doveva apparire più tollerabile, immagino. Funzionava così: la musica era un buon indicatore del nostro stato d’animo: quando non la sentivi, meglio girare al largo.