Maslow

L’unica è chiudere la finestra. Mi alzo e chiudo, spingo la mano sui vetri rinforzati, premo fino a sentire la lastra che affonda nella gomma che fa da rivestimento. Il cuscinetto che tiene fuori il rumore è un filo lungo di materiale plastico, un tubicino, dal ferramenta costerà si e no 3 euro al metro. Sogno di comprare chilometri di tubicino, di avvolgermi nel tubicino. Intanto metto i tappi per le orecchie e alzo la musica. L’unico rumore che tollero è quello prodotto da me stesso. E’ il rumore su cui ho potere, l’interferenza che posso gestire, il controllo semplice ai suoni del mondo che mi concedo per non sentirmi completamente perso e nullo di fronte al calore e al vociare del corso. Io mi chiamo Arturo Minozzi, compirò 47 anni nell’anno che avete appena festeggiato con botti e spumante e ho una colpa. Sono stato cinico per buona parte della mia vita, sarcastico, pungente, freddo e mi sono divertito a guardare le reazioni della gente a questo mio essere, ma adesso ho voglia di confessarmi, posso permettermelo e forse potete permettervi anche voi di ascoltarmi: la mia colpa è aver lasciato andare l’amore. Anche quello non era stato prodotto a me.

A me è parso un altro spostamento d’aria di troppo come quando viene maggio e sono costretto a spalancare il balcone per far cambiare l’aria. Allora dalla strada arrivano i suoni del traffico, arrivano i clacson della statale e le grida del mercato, arrivano gli umori parlati dei miei vicini di casa, le loro radio, le loro tv, il fumo delle loro sigarette. Queste sono cose che uno non chiede, però che sa comprese nel prezzo. Uno annovera sempre, tra le possibilità della vita, quella di non riuscire a dormire per il casino che fanno gli altri e che sente di fuori. E’ un default. Allora coltiva la pace per quello che può: sceglie case all’ultimo piano per esser lontano dalla strada, frammenta l’hard disk, pulisce regolarmente intenzioni e pensieri confessandosi nella maniera spiccia che conosciamo noi, con certa musica, davanti allo specchio del bagno certe mattine che ci si lava i denti cercando di non sporcarsi la maglietta, nella solitudine, perché quello è facile, le opinioni che uno matura in questi stati d’apnea silenziosa sono le migliori: sei solo e non c’è nessuno a contraddirti.

Così l’amore. Anche quello non l’avevo chiesto. A dire la verità mi pareva anche di aver già dato, di essere in una posizione rispettabile, altri valtzer, altri posti, altre lacrime versate di nascosto come elemosina nelle chiese, una specie di tributo. Avevo, adesso, altri progetti, altre idee. Un tizio ha teorizzato i bisogni, li ha messi in scala perchè nessuno potesse confondersi. Al primo piano il necessario, poi sarebbe venuto il resto. Io avevo, dunque, da mangiare e bere; avevo un posto dove lavorare e uno dove dormire; addirittura uno dove fuggire, uno dove chiudermi per stare in santa pace, nella fattispecie il cesso, e persone a cui volere del bene negoziato una volta venuto fuori; sapevo, infine, di essere me: gli anni, i viaggi che avevo fatto, i like su facebook, i film preferiti, i libri, la musica che avevo sentito una volta. Avevo avuto, nel passato, anche un po’ di polvere sull’ultimo ripiano: una lanuggine con cui mi ero sporcato le mani, su cui avevo provato a lasciare le mie impronte e sui cui, mano a mano che crescevo, avevo impresso forza sempre maggiore, cosa di cui non mi credevo capace. Avevo avuto, così, la meglio: nel piano lucido si era riflettessa la mia faccia come accadeva sul tavolino lack comprato all’ikea quando ci passavo sopra il panno col vedochiaro.

L’amore aveva scalato rapidamente i gradini della mia scala delle necessità: per non urtare contro le zeppe dei miei valori era salito leggero, poggiando solo la pianta del piede e non il tallone. Era arrivato su in cima senza che me ne accorgessi, quasi ballando. E, infine, quando mi aveva guardato in faccia era stato semplice come guardarsi allo specchio. Il riconoscimento era stato tale che lei mi aveva aggiustato i capelli quasi fossero i suoi.

Credo ci sia un momento, un momento chiaro in cui ci si rende conto di avere in mano i fili della storia. In quel momento esatto bisogna stare attenti: noi si gioca a vedere cosa succede a tirare un poco questo o quell’altro capo, cosa succede e cosa potrebbe essere nel disegno della maglia. Ma tutti sappiamo bene che, una volta scelto, dovremmo assestare al filo un movimento deciso, come fa il pescatore tirando forte la canna fuori dal mare delle possibilità. Così io tirai fuori lei. L’attimo in cui la vidi luccicare d’acqua, appena fuori dall’azzurro indefinito e ancora bagnata delle incognite dei prossimi movimenti, cercai di non guardarlo. Era un’autoprofezia, ma lo vidi tutto per intero. Avevo tirato il filo che mi legava ad un pianoforte a coda, avevo tirato il filo che mi legava ad una libreria di noce, avevo tirato il filo di una cassetta intera di attrezzi da meccanico. Di queste cose pesanti lei non aveva l’incedere ma la profondità, come se potesse essere, al tempo stesso, leggera e presente come la polvere che avevo cercato di rimuovere negli anni. Il problema era che questa polvere aveva colori chiari e cominciava a starmi simpatica.

Non mi chiese di cambiare l’ordine delle mie cose, ma le cose cominciarono a cambiare ordine da sole, come un bambino sul sedile posteriore della macchina. Io non ero ancora pronto per nulla del genere, io avevo ancora bisogno di estendere il mio dominio, di pisciare agli angoli come i gatti, io non ero padre, io non ero figlio, io ero solo. Lei promise: si sarebbe fatta donna, non madre e non ragazza, e  sola,  e per me solo avrebbe finto di non sapere ciò che la vita le aveva insegnato sul dare, come succede davanti ad un neonato, perchè le possibilità del nuovo non muoiano davanti al piombo dei fatti neri che fanno la nostra storia e che ci insegnano a forza e che a forza ci cambiano. Mi avrebbe lasciato crescere e solo una volta cresciuto avrebbe richiesto il ricambio degli affetti e delle posizioni. Le dissi che avevo già qualcosa del genere nella vita, incasellato perfettamente al suo posto al gradino tre, il gradino cui portavo cura, quello a cui tornavo, il gradino che pure nella piramide di Maslow riluceva di giallo. L’amore non mi guardò neppure in faccia con l’astio che mi sarei aspettato. L’amore rideva, indicava la mia scaletta tronca a cui mancava la fine. Sarebbe stata rosso acceso, questo lo sapevo dai libri, sarebbe stato il compimento, sarebbe stata la punta dei campanili, io l’avrei nascosta con poche nuvole e lei m’avrebbe lasciato fare prendendo la mia paura per carezza.

L’attimo che dicevo prima successe in quel momento. Successe come succede la primavera, come succede marzo e aprile. Io abito vicino al mare. Il mare mi chiamò dalla statale, mi fece passare l’incrocio e i semafori, mi fece pensare che anche se non avevo il costume avrei potuto comunque fare il bagno. Non mi sarebbe successo nulla di male, il sole mi avrebbe cotto solo un poco, avrei chiesto a lei di fare attenzione anche per me che mettevo in conto le scottature, anzi, quelle mi avrebbero fatto piacere pure. Con le dita mi sarei tirato via la pelle morta come la muta di un serpente, l’avrei vista accartocciarsi tra le mie mani e, al rientro a casa, avrei mosso le dita dei piedi per sentirci i grani di sabbia appena sporca. Solo una volta sceso sulla riva mi resi conto di essere solo: lei non c’era. Pensai di averla mandata via una volta di troppo, pensai che avevo sbagliato a fidarmi, pensai che fortunatamente me ne ero accorto in tempo. Giacchè c’ero mi spogliai, mi tolsi anche le mutande e mi gettai in acqua. Feci poche bracciate azzardate nel freddo e nel silenzio, giocando a fare finta di non averne voglia anche se ne avevo, altroché. Mi venne da ridere, da schizzarmi da solo, da mettere la testa sotto e tenere il fiato. Ma quando venni fuori, la trovai lì, in piedi sulla sabbia. Era lì con me, c’era sempre stata, adesso mi sembrava ovvio. Ci sarebbe stata ancora. Ero entrato in acqua pensando di non esser visto e l’avevo resa felice con poco, adesso sapevo quello che nessuno crede: l’incapacità a chiedere dell’amore. La sua attesa e la sua gioia nel piccolo.

Scappai a gambe levate. Lasciai il cucciolo sul ciglio del marciapiede, lasciai il frigorifero nella discarica abusiva, lasciai il bambino picchiato davanti al cancello di scuola, lasciai la signora anziana che piangeva al telefono la sera di Natale. Li lasciai tutti dopo essermi avvicinato il tanto che basta per essere riconosciuto. Iniziai a correre mentre ero ancora in acqua e l’amore lo prese come un gioco. Mi corse dietro sulla sabbia che a me parve assecondasse anche la mia fuga. Sorrise mentre mi rivestivo e ancora, da sopra la spiaggia, mentre io entravo in macchina e mettevo in moto con le gambe intorpidite dal freddo. Al momento non mi importò molto di lei e della sua reazione anzi, il suo stare mi fece sentire peggio, provare una cosa nuova assieme alla rabbia: la paura. Tornai indietro a retromarcia allora per farle il male che si fa alle cose che si vuol tenere lontane: la feci salire a bordo, le dissi tutto quello che avevo sentito in milioni di film, le dissi quanto bene le volevo e quanto poco mi importava, le dissi di riprendere la sua vita e quello che mi offriva quasi fosse stato un regalo poco gradito.  Quando attaccò a piangere e mi parve intollerabile averla ancora attorno le dissi che alla sua persona eccezionale io chiedevo la cura del dolore che io stesso sentivo di aver causato, ma ci tenni a precisare la mia totale estraneità ai fatti. Lei era stata una prova, o quasi, della bontà delle mie convinzioni. Non la guardai neppure in faccia mentre le dicevo ancora dell’universalità del suo amore e del fatto che avrebbe potuto tranquillamente amare un altro, anzi, che auspicavo che lei amasse un altro, così avrebbe visto com’è.

Poi la feci scendere, le guardai il culo per l’ultima volta e mi fece male sentirlo rotondo con gli occhi proprio come lo avevo sentito con le mani. Immaginai lei e il culo con altri, immaginai lei che sorrideva con altri, di quel riso scemo, lei che allumava agli occhi degli altri.  Immaginai che l’avevo, infondo, sdoganata al mondo e ciò mi fece sentire importante come un boss della camorra, io che l’avevo lasciata fuori insieme ai sacchetti della spazzatura. Per sentirmi apposto pensai convinto che lei sarebbe stata in grado di rialzarsi e di rimettersi in sesto. Il saperla così piena di possibilità mi fece tornare a casa in pace. Così restai per altro tempo. Così resto oggi. La notte  fatico a prendere sonno perchè mi pare di sentire la televisione dei miei vicini. Ho dei problemi a chiudermi in bagno, dopo un poco mi viene l’ansia. Mi infastidisce la libertà che hanno gli altri, mi infastidisce la loro capacità di scelta quando questa decisione arriva a me senza toccarmi per davvero. Guardo spesso la televisione, mi interessano i reality e le fiction di certa gente messa tutta insieme nella giungla, le infinite possibilità combinatorie che si aprono una volta lontani dalla vita di tutti i giorni.  I litigi come i riavvicinamenti, la rappresentazione delle armonie del disordine mi interessano molto come la scoperta di un trucco di magia, tanto che, certe volte, quando mi pare di aver capito qualcosa, avrei voglia di alzarmi e gridare con forza, senza motivo, giusto per vedere il suono che viene fuori. Allora mi ricaccio in gola tutti i versi che vorrei fare e li tengo compressi, rimbalzandoli sotto la lingua come una mollica di pane. Quando la mollica raggiunge le dimensioni di una rosetta la indirizzo verso l’esterno per non esserne soffocato, scagliandola contro la prima cosa che vedo e che mi chiede: partecipazione, decisione, forza, voglia, sorrisi. Conto rapido la scala delle mie priorità e dei miei bisogni con la stessa regolarità con cui ci si conta le dita: basta un colpo d’occhio per saperle tutte. Spesso sto seduto sull’ultimo gradino della piramide. Scrivo lettere al dottor Maslow, anche se è morto da un po’. Tengo con le finestre chiuse. Fuori è giugno. La cosa non mi interessa.