Il cielo sopra (il muro di) Berlino
Chi torna da Berlino, parla di cantieri e di nuove costruzioni. Ne parla bene. Non ha lamentele da fare su blocchi del traffico o sulla mobilità: perché cantieri e costruzioni non ostacolano la vita, anzi, la vita stessa sembra tutta da fabbricare, tirare su, mettere a nuovo, anche il passato, basta far un giro a Nikolaivirtiel, il quartiere di origini medievali quasi completamente distrutto durante la seconda guerra mondiale e ricostruito negli anni Ottanta, per dirselo.
Edifici moderni a pannelli prefabbricati che raccontano: alla vista siamo uguali ai pochi palazzi scampati alle bombe perché una guerra la si può toglier via dai muri senza per questo negarla alla coscienza, e siccome la coscienza è la strada da seguire, forse il posto giusto per la memoria è lì, nei sampietrini d’ottone di certi marciapiedi che portano scritto il nome di chi viveva qui e il luogo in cui la sua vita è finita. Il perché è noto. Le chiamano stolpersteine, pietre d’inciampo, le ha pensate l’artista Gunter Demnig in memoria di cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti, di gruppi etnici e religiosi ritenuti indesiderabili dal regime. Per ricordare basta poco, un solo cenno: sulla Grosse Hamburger Strasse lo sanno, e dove sorgeva l’Alter Jüdischer Friedhof, il più antico cimitero ebraico distrutto dalla Gestapo nel 1943, ora c’è una sola lapide, quella di Moses Mendelssohn, il filosofo illuminista. Lo sa Libeskind con il suo Jüdisches Museum che, ha spiegato, «descrive e integra, per la prima volta nella Germania del dopoguerra, la storia degli ebrei del Paese, le ripercussioni dell’Olocausto e il senso di disorientamento spirituale connesso a tutto ciò».
Lo sa la East Side Gallery, il tratto del Muro lungo quasi un chilometro e mezzo, galleria d’arte all’aperto che ospita oltre cento dipinti murali originali e dice quello che un libro di storia non farà mai: che qui si è vissuto, mentre quelli che oggi sono i fatti erano ancora da venire, e i fatti e la vita possono correre assieme, certo, ma l’uno non può sapere dell’altro, se non in pochi, rari momenti fortunati. E quando ciò avviene, anche il “dente bucato” della città, la Gedächtniskirche, la chiesa della commemorazione del Kaiser Wilhelm rovinata delle bombe, diventa monumento che celebra la pace e la riconciliazione.
È allora che Berlino sta alla vita come i trent’anni ad una donna: il momento in cui ti sembra di aver fatto molte cose e di poterne ancora fare, e sei sicura di te anche se il tuo futuro può apparirti incerto e il ricordo del passato spaventarti: non cerchi più ragioni in loro. Sei esattamente quella che sei, e va bene. Va bene se Tempelhof, il vecchio aeroporto, «la madre di tutti gli aeroporti» come lo definì l’architetto britannico Norman Foster, il luogo famoso in tutto il mondo perché qui atterravano i voli del ponte aereo del 1948, diventa un parco al contrario di quello che avviene altrove, dove il progresso passa per il cemento. Qui c’è il verde, l’aria, qui è più grande di Central Park a New York, e puoi correre sui pattini o affittare una bicicletta o far volare un aquilone, assieme alle altre 50mila persone che lo visitano ogni fine settimana.
Va bene se di un complesso di otto cortili comunicanti del 1700, ne fai opera di restauro che diventa sinonimo di nuovo, nel Duemila: sono gli Hackesche Höfe e si trovano a pochi passi dalla stazione della metropolitana di Hackescher Markt, e ci trovi negozi, ma anche abitazioni private e botteghe artigiane, e locali, lavoro, intrattenimento, gastronomia, teatri.
Va bene la costruzione, il cantiere e l’appunto di memoria da un lato, le linee della metro e del tram e gli autobus a due piani, i mercati e i negozi di vintage, i ristoranti indiani tra l’est e l’ovest che distingui dagli spazi o dall’alto della Fernsehturm, la Torre della televisione alta, si dice, 365 metri, uno per ogni giorno dell’anno. Va bene tutto perché sei qui e lo sai: ce la fai, ce l’hai fatta, ce la farai.