We don’t need no education
È la Settimana Italiana dell’Insegnante e io ne ringrazio tre: due sono stati davvero bravi, uno per niente. Perché sia chiaro che per sedere dietro ad una cattedra serve non solo l’abilitazione ma anche molto cuore e cervello.
Ieri ho fatto due telefonate. Prima di farle mi sono appuntata sull’agenda “Queste sono opere di fiducia e anche di speranza. Se non hanno i risultati sperati, mi impegno a ricordarmi che non è colpa mia“.
No, non stavo per chiamare due criminali di guerra e io non sono Tess Asplund, la donna che ha attraversato un corteo di neonazisti svedesi con una mano chiusa a pugno e l’altra a reggersi una shopper tanto che in Svezia c’è già chi ha fatto parallelismi con Danuta Daniellson, “tanten med väskan”, la donna con la borsa (secondo me Tess prima aveva fatto la spesa e la cosa me la fa rispettare anche di più).
Comunque, le telefonate, dicevo. Devo avere questo genere di cortesie con me stessa. È come se portassi le lenti a contatto: prima di guardare in faccia il mondo, disinfettante, contenitore e mani pulite sono necessari, sennò comincio a lacrimare. No buono, lo so, ma sono fatta così.
Tornata a casa – le telefonate le ho fatte per strada, altra premura autoindotta ché per me le strade di Napoli sono il rimedio più rapido alle preoccupazioni (di questa cosa ne ho scritto abbondantemente qui) – ho trovato un’email che mi informava della “Settimana Italiana dell’Insegnante”, un’iniziativa di MasterProf & Your Edu Action. Per celebrarla degnamente mi si invitava a ringraziare pubblicamente uno o più insegnanti che sono stati importanti nella mia vita utilizzando l’hastag #RingraziaUnDocente.
È stato allora che ho capito che quello che so di me – del mio rapporto con gli altri – l’ho imparato dalla maestra Gianna, Gianna Palladino.
Ero alle elementari, infatti, la prima volta che ho capito che ero destinata ad essere quella che sono oggi, una che – recito a memoria da una pagella dell’epoca – per mostrare con sicurezza il suo potenziale ha bisogno di sentirsi accettata.
Di insegnanti, professori, docenti, ne ho avuti tanti nella mia vita e non tutti erano dietro ad una cattedra, anzi. Molti di quelli che mi hanno insegnato qualcosa erano persone come me, senza abilitazione per farlo. Questo non me li ha fatti rispettare di meno, no.
Però c’è una distinzione che io faccio sempre.
Per me ci sono due tipologie di insegnanti: la prima è quella che presuppone che tu impari da un dolore, da una privazione. Il “no” è un grande maestro, certo, e da lui si può apprendere tanto: è dalla sofferenza che noi impariamo costantemente limiti, confini, solitudine. Ma quanti anni avevo quando l’ho capito, quando mi sono accorta che l’unica possibile soluzione era quella che io stessa, da sola, avrei trovato?
Il dolore mi ha sempre insegnato la certezza di me. Ma per quanto necessarie, per quanto “non ci mettiamo a farne un dramma“, questa tipologia di insegnante che parte da un limite, non è la mia preferita.
La categoria di insegnanti che adoro, invece, è quella che sa fare uso della dolcezza. Molto tempo fa ho letto da qualche parte che ai bambini ebrei cui si vuol fare imparare i simboli dell’alfabeto viene somministrato un particolare rito di passaggio: le lettere vengono scritte su una tavolette con il miele, nella speranza che la stessa dolcezza possa essere poi ritrovata nella lettura della Torah. La gioia dello studio e dell’apprendimento la maestra Gianna la conosceva bene: ad esempio, ho imparato le tabelline con una tavoletta di cioccolato divisa a blocchi. Lei chiedeva: 3 pezzi per 5 bambini quanta cioccolata fa?
E le mie pagelle, a scuola, dicevano che ero una capretta in matematica, certo, che l’espressione linguistica era preoccupante già all’epoca, sicuro, ma sempre, e dico sempre, in calce c’erano le parole timida, dolce, silenziosa, sensibile e mi parevano tutte cose belle perché le diceva lei: avrei capito dopo il danno.
La lezione più grande che ho ricevuto da lei, infatti, si è tenuta in quinta elementare: non sono mai stata una bambina/ragazzina popolare, non ero di quelle invitate a tutte le feste, per capirci, e di base la mia migliore espressione nei confronti del creato era il mutismo – parlavo già molto su carta, okay – e ad un certo punto cominciai a pensare che fosse colpa mia. Cosa avevo da offrire poi?
Cosa si offre agli altri a nove anni per farsi accettare ed esprimere con sicurezza il proprio potenziale? Io offrivo il mio pane e cioccolata, le mie figurine di Holly Hobbie, le metà dei quaderni, i compiti già fatti. I bambini – bambini come me – prendevano: chiamali scemi. Gli adulti non si facevano molti problemi. Di base ero considerata “molto buona” che a casa mia significa “scema”. Quando se ne accorse la maestra Gianna, invece, avemmo una sfuriata – io e i bambini come me – eccezionale: questa donna che nella mia memoria avrà sempre un maglione bianco a fiori rosa capii che stavo tentando di comprare con il poco che avevo cose che erano comunque fuori mercato: affetto e amicizia. È stata la sola cazziata che ho avuto da lei, il solo “non si fa”, e, Dio, la ringrazio per la cosa ancora oggi.
Un altro insegnante a cui devo tanto l’ho incontrato all’università. Era il mio professore di Storia Contemporanea, si chiama Pietro Cavallo e qui sotto c’è una foto dell’ultima volta che ci siamo visti, quando ho partecipato ad un incontro sul come fare di un lavoro quello che hai imparato in aula. Capirete, dal suo sguardo, quanto io abbia amato di averlo come docente.
Lui mi ha insegnato, ad esempio, quanto i film, le canzoni, la narrativa, dicano di un determinato periodo storico. Lui mi ha insegnato la passione per i film muti tipo “La folla” (King Vidor, 1928), per le retrospettive, per i seminari. Mi ha permesso di conoscere Pierre Sorlin (ho l’autografo, per capirci, c’è gente che li chiede ai cantanti, io ai professori della Sorbonne) e Simona Colarizi, una donna che – Dio – come e cosa avrei fatto senza la sua “Storia del Novecento Italiano”?
Pietro Cavallo che mi ha permesso di laurearmi con una tesi sulla commedia italiana, ha saputo trasmettermi la sua stessa passione tanto che ricordo ancora le parole e l’entusiasmo con cui metteva su i cineforum in cui io, normalmente, ero quella che piange, in prima fila, su Rocco Parondi che lascia Nadia in Rocco e i suoi fratelli.
(è in spagnolo, sì, non ho trovato video in lingua originale)
Però, come dicevo, ho avuto anche tanti “cattivi maestri”. E anche di loro ricordo nomi e cognomi, hai voglia. E dunque, visto che è la settimana degli insegnanti, voglio sceglierne uno tra almeno una decina perché sia chiaro che non tutti quelli che si siedono dietro ad una cattedra hanno abbastanza cuore e cervello per farlo.
Ricordo, ad esempio, la professoressa d’Italiano delle medie che quando s’accorse che subivo ripetute aggressioni fisiche, verbali e sessuali (intendo per sessuale il vederti srotolato e lanciato addosso un preservativo mentre cinque ragazzini mimano su di te l’atto della copula, una cosa che all’epoca conoscevo solo come verbo) si concentrò su una sola minima cosa, quella in cui era forte: il fatto che mi chiamassero mostro. Per cui mi chiamò alla lavagna per interrogarmi sulla sua origine ed etimologia, quel mostrum latino che significa miracolo, portento.
Povera me che la prendevo male, insomma, poverissima.
Secondo la grandissima scienziata abilitata e pagata per accompagnarmi nell’adolescenza e darmi le basi linguistiche per stare al mondo quelli che ricevevo erano complimenti: un applauso.
La verità – quella nata dalla sicurezza di me, insomma – è che ho delle aspettative molto alte su chi vuole insegnare qualcosa a qualcuno. Non la considero una cosa brutta, anzi, è il minimo. Adesso, io avevo problemi anche con il tizio che insegnava educazione fisica alle superiori – prendeva in giro chi non era capace di arrampicarsi sulle sbarre, per capirci – ma al di là di riforme, di Buona Scuola e via dicendo, mi piacerebbe che la qualità più ricercata nei maestri e nei professori fosse l’empatia.
C’è qualcosa che la valuta? Sappiamo niente dell’impatto di questo o quell’altro insegnante sulla vita dei ragazzi? Ditemi di sì.
La bambina che offriva la sua merenda in cambio di affetto adesso è una donna adulta che il pranzo di solito lo fa davanti ad una tastiera o leggendo un libro, in solitudine, e ne è grata. Quando gli altri in qualche modo mi arrecano dubbi sulla mia persona e la sua utilità di stare al mondo mi scrivo sull’agenda che affetto e amicizia sono merci fuori mercato.
Devo avere delle premure verso me stessa, va bene, come se ci fossero delle parti di me fuori da me, su cui non ho alcun controllo: il restarci troppo male per delle sciocchezze, lo stare troppo bene per delle altre.
Ho bisogno di ricordarmi che il mio sistema di percezione è sensibile quanto un sismografo.
Ma ogni volta che mi trovo nella posizione di poter insegnare qualcosa – di solito sono cose che riguardano la scrittura e la comunicazione, ma succede anche in situazioni “fuori dai banchi”- cerco di stare sempre attenta. Non sempre mi riesce, ma me lo chiedo: se un testo è troppo pesante o duro, se le mie parole possono ferire, se le facce dei miei – tra moltissime virgolette – allievi sono quelle di qualcuno che vuole capire e se sono capace di leggere nelle storie che scrivono sotto la mia guida e che mi raccontano, anche la mia.
Faccio telefonate per accertarmi che i miei sbagli – ne faccio come tutti gli altri – siano rimediabili.
A dire la verità, sorrido molto per il solo fatto d’esser riuscita a schiacciare il tasto “chiama”, di aver ricordato la maestra Gianna e il prof. Cavallo e non la cessa delle medie. Significa, in fondo, che ho ancora voglia di imparare.
Con gioia, si spera.