The last good day of the year

The waiting game – Txema Salvans

Carla

Oggi è l’ultimo dell’anno e Scarlett Johansonn è felice, sta scritto sul sito internet per donne che vedo la sera prima di coricarmi. Esce una specie di stella in pop up, tutta brillantini e scie luminose, poi compare lei in vestito rosso. Oggi è felice, ieri era particolarmente stanca. Posso pure cliccare per vedere come starà domani e una volta l’ho fatto pure ma spingermi nel futuro mi ha lasciato vuoto il giorno appresso e io credo che bisogni sempre rispettare i tempi, non anticiparsi le cose. La stellina che mi avvvisa dello stato d’animo della mia attrice preferita è una impostazione a scelta di questo sito internet dove posso anche fare l’oroscopo, tenere conto del mio bioritmo e del mio metabolismo basale. Ormai so che è tardi e che è ora di andare a dormire non perchè sento la stanchezza o guardo l’orologio, ma perchè è comparsa la stella. Quando Scarlett è di cattivo umore mi chiedo sempre perchè, se le si è spezzata un unghia,se il disco che ha fatto non è andato bene, se la parrucchiera le ha sbagliato il colore o si è rotta la cinghia degli stivali da cavallerizza. Non è che non penso che possa essere di cattivo umore per un motivo più serio, è solo che non ce la vedo, cerco nei film che ha fatto l’espressione tipo dolore ma non la trovo. Trovo quella triste che pure le riesce bene, ma poi arriva Bill Murray e le passa tutto. Mio marito non è proprio Bill Murray. Si gira nel letto la notte e fa le puzze come se io non ci fossi, forse veramente non ci sono. Non ci sono nemmeno quando mi spoglio, quando mi faccio la doccia, quando mi metto le calze e penso a come se le mette Scarlett, penso ai dettagli che potremmo avere in comune, tipo l’unghia del piede, e allora mi concentro perchè in quell’unghia io sono Scarlett, le mie cellule sono le sue, morte entrambe ed entrambe dipinte di rosso.

Liù

Mi ha toccato la pancia e mi ha detto: dai, vieni dentro. Sorrideva, ma ha capito presto che dentro non sarei andata, non da sola. Io rimanevo come stavo: stesa, immobile nel buio, al vento del quinto piano. Allora si è abbassato sulle ginocchia e sbuffando mi ha preso blaterando di fuochi d’artificio che m’avrebbero sicuro spaventata. In casa mi ci ha portato di peso e io mi sono lasciata alzare e posare perché davanti a lui non avevo scelta e non avevo voce, non ho tirato fuori le unghie e lui ha vinto. Arrivato alla sedia di plastica, l’unica rimasta dal trasloco, ha aperto le braccia e mi ha mollato in un colpo. Si è liberato presto di me e non ho capito che si trattava solo di un’anticipazione di quello che sarebbe successo poi. Eppure dei suoi gesti misurati e teatrali io ho sentito l’intenzione lunga di farmi sapere perché non potessi dire, un domani, di non aver immaginato che. Le braccia lui le ha alzate prima al cielo e poi le ha lasciate cadere molli sui fianchi, come un direttore d’orchestra che tiene in mano la musica e quando chiude il pugno, beh, allora significa che la musica è finita. Fortuna si è ricordato di aggiungere i croccantini alla ciotola.

Valentina

La sera della domenica si trovavano in cucina, lei e sua madre. I pezzi di stoffa guadagnati al campo recavano tutti il motto della compagnia e c’erano disegnati bambini che guardavano attenti da dietro una lente d’ingrandimento, bambini che pregavano assorti alla poca luce di un finestrone gotico, bambini che suonavano la chitarra con tranquillità, bambini che accendevano il fuoco con maestria. Tutti questi bambini prodigio andavano cuciti sulle maniche della camicia azzurra scout come fossero mostrine e armi magiche. Valentina aveva la toppa del bambino che cucina per il resto della squadriglia anche se l’unica volta che aveva avuto il compito di preparare da mangiare aveva usato la panna per dolci al posto della panna da cucina. Tutti avevano mangiato i suoi strani tortellini, le avevano fatto pure i complimenti ma lei sapeva che a casa sua l’avrebbero scormata a sangue. Alla fine dell’anno, quando aveva salvato due cuccioli di cane chiusi in un sacchetto di plastica, le avevano dato la toppa più ambita: nel disegno stava un bambino tenuto per mano da suo padre. Il padre sorrideva orgoglioso della vicinanza come se il bambino avesse superato un’ardua prova prima di giungere al cospetto del genitore. Valentina era tornata a casa felice ed entrando in cucina aveva fatto il saluto scout a sua madre come quella gente che va all’estero e quando rientra in patria si sorprende a parlare in lingua straniera. Il saluto scout era un saluto significativo: si univano pollice e mignolo mentre il resto delle dita restavano alte e dritte e stava a dire: che il più grande protegge il più piccolo davanti alla comunità. Ma sua madre l’aveva guardata e non l’aveva riconosciuta, le aveva visto negli occhi una certa luce di contentezza che non sta bene quando tuo padre è morto da un mese e mezzo.

Sandra

Si sta innamorando. Non è una cosa buona. Quando Sandra si innamora è un disco di De Andrè una bottiglia di vermouth un letto senza fare e tazze varie di caffè. Entra nella stanza della sua coinquilina assente per le feste, si prova le sue magliette per sentirsi un’altra, prende un mozzicone di camel dalla ceneriera. Lo raddrizza, ci toglie la punta di bruciato, lo riaccende e tira forte. Sa di acqua sciacquata. Spegne il tizzone in un bicchiere d’acqua marrò. Scrive haiku:

Amerò mai me/ la mia faccia disegnata di mancanze/ Il piccolo cancro che non si dice/ Sono minimi sbagli a tagliuzzare pelle bianca muta/ A chi potrò raccontare all’orecchio/ paure calde come coperte/

Crede nelle rune celtiche, nell’oroscopo cinese e in Paolo Fox. Ascolta musica su youtube e aggiorna il tumblr. Veste completini intimi da porno spinto. Si mette nel letto nuda.  Poi ha freddo, si alza, si mette il pigiama e si concentra sulle sciagure del telegiornale. Cerca un contropeso alla forza che le preme il basso ventre, cerca di ristabilire l’equilibrio delle cose con due tre quattro incidenti mortali. Legge le cronache. Cerca su repubblica approfondimenti morbosi. Si iscrive ad un corso di tecniche di regia e montaggio cinematografico. Al corso dicono che Vivien Leight in Psyco ha sempre vicino un elemento di salvezza: una finestra, un libro di preghiere, un telefono. Se fa una brutta fine è perchè se l’è scelta. La radio dice che tutto l’universo obedisce all’amore. Ma Sandra non ne è sicura come Franco Battiato.

Luisa

Quando era arrivata a Napoli il primo giorno la città le aveva fatto un effetto buono, le aveva ricordato di lei bambina, i treni, gli zii di Quarto, e suo padre che se la costringeva a far a piedi dalla stazione a piazza Dante. Le strade manco le sapeva ma una volta arrivata a Monteoliveto aveva ricordato tutto tutto, pure le scale della posta dove una volta si mettevano gli ambulanti. Suo padre ci andava sempre, faceva la raccolta dei francobolli, li aveva tutti di tutti i paesi disposti ordinati in un album. La mattina che l’avevano portata d’urgenza al policlinico suo padre era salito nella macchina dietro l’ambulanza, poi una volta entrati sulla tangenziale l’avevano perso di vista. Era tornato che lei si era già ripresa dall’anestesia. Aveva un paccotto nuovo di francobolli, ne aveva trovato certe giapponesi bellissimi con il monte fuji e i fiori di ciliegio. Luisa l’aveva mandato a fanculo, poi si era pentita, l’aveva chiamato e si era fatta portare le sigarette. Fuma anche adesso che ha deciso che la vita sua deve cambiare e che quello che viene è l’anno giusto per aver tutta la ragione necessaria. La casa dove deve andare a vivere con Antonio manco l’ha vista ma le piacerà comunque, al quarto piano di un parco con il custode. Per arrivarci si prende la metropolitana collinare, si passa davanti alle stazioni signorili dove i controllori chiedono il biglietto, poi passato il Policlinico nessuno chiede più niente a nessuno.