Vita precaria 2.0
Ieri si è concluso il corso di formazione a cui ho preso parte negli ultimi mesi: dovrei avere, a breve e previo esame, una nuova qualifica atta a testimoniare che sì, la mia professionalità è oggi multimediale: passa cioè da un medium all’altro senza per questo trovare pace. Alle volte, questa situazione, più che polivalente mi pare nomade, zingara e senza fissa dimora.
Ora, il problema più impellente è che ogni qual volta una condizione lavorativa o para-lavorativa non si stabilizza, mi trovo a dover fare i conti con la mia famiglia. Provate voi a dare in pasto ad una classica famiglia del sud il precariato: è come spruzzare acido sulla melassa. Passiamo, dunque, in rassegna le varie figure che potreste incontrare.
Mettete me, figlia venticinquenne che dopo circa 7 mesi di napoletanità e pulmann alle 6 e dieci di mattina e portafogli vuoto, torna a casa con la faccia devastata alla Johnny Rotten e quello che resta di un’autostima passata a ripetizione sotto un filobus (nel caso, il numero 201, piazza garibaldi -via medina). Fa il suo ingresso nel tinello e la prima parola che le viene rivolta è una dotta citazione da Eduardo: “uè, e tu cà staje?!”.
La figura 1, che di solito ha un rapporto di parentela subordinato, una zia, uno zio o giù di lì, di solito interviene chiedendo ora del vostro arrivo, tempo di permanenza in casa madre, orario di partenza. Sono domande che non possono essere evitate, perchè illico et immediate e l’unico modo che avrete per scampare alla persecuzione è quelle di dare davvero delle coordinate, anche fasulle. Non provate nemmeno lontanamente a perorare la vostra causa con il blablabla della precaria e del lavoro che non ci sta. Dopotutto siete stati voi a scegliere di fare il giornalista, mestiere che se non hai un contratto è una specie di hobby molto costoso tipo il tennis.
La figura 2, di solito nonna o nonno o comunque persona di una certa età viene a riappacificare gli animi, sedando sia voi precari che il parente subordinato che sta rischiando la morte per anatema. E lo farà con il classico metodo di “una botta al circhio e una al circhione“: ma tu sei giovane – dirà, facendoti sentire momentaneamente salvo – ho visto che il negozio di scarpe che sta sul viale cerca una commessa, il padrone del negozio è un cugino di cummàgiuseppa, domani ti accompagno io e vedi che ti sistemi pure tu che il giornalismo è un mestiere senza pace di dio.
La figura 3, di solito diretto genitore, non parlerà: muto e silenzioso vi starà accanto per tutta la durata dell’interrogatorio cercando di darvi forza con lo sguardo determinato di Clark Kent prima della trasformazione. Salvo poi rinfacciarvi in qualche modo che non vi date abbastanza da fare e che, mentre aspettate che il vostro sogno si realizzi con un contratto a tempo superdeterminato, potete pure adattarvi a fare la pulizia delle scale del condominio che si pigliano quasi trenta euro, bei soldi.
Eppure, ciascuna di queste figure che potrebbero portare al suicidio metafisico un qualunque giovine disoccupato ha una giustificazione. Loro il precariato senza speranza non lo conosco: sono nate e cresciute in una realtà sì difficile, sì ostile, sì fertile di sogni da cartolina e arida di speranze come il sud italia ma che garantiva, almeno, se non le rose, il pane.
Pane garantito in anni come segretaria dello stesso studio pure se non sai appicciare manco il computer e per te microsoft word è il nome di una medicina per il mal di stomaco, pane garantito dalle emergenze che arrivano nel momento giusto a trasformare il tempo determinato in un tempo assoluto, continuo. Un tempo fatto di rinnovi anche se non si è capito bene cosa fai e cambi mansione ogni due mesi e fai corsi di aggiornamento clamorosamente in ritardo sul tuo di tempo. Un tempo fatto di passi avanti che se ti dai da fare, se fai davvero il tuo dovere, se attacchi il ciuccio dove vuole il padrone senza spiegare, senza dire, senza dare il tuo punto di vista se non esplicitamente richiesto, il posto si trova.
Mio nonno ha lavorato in un pastificio per quasi quarant’anni e per quasi quarant’anni ha avuto lo stesso posto, lo stesso ruolo, lo stesso reparto senza mai conoscere domeniche e giorni di festa. Non per questo era infelice; lo so quando lucida la targhetta di cavaliere del lavoro, quando ha i conti giusti a ottanta e passa anni. Io sono passata dalla cassa dei supermercati, dagli ortofrutta al banco salumi al reparto carni alla cronaca bianca nera marrò all’ufficio stampa di un’ente allo stage al corso di formazione e ritorno: per mio nonno la mia malattia non è la precarietà ma il non aver aderito completamente alla professione, il mio non aver indossato la cuffietta al banco della carne, il mio aver risposto a tono a tale dirigente, il mio chiedere troppo e comunque male, nell’ordine sbagliato: prima ancora del pane, le rose.
Perchè forse lo sbaglio sta lì: noi che sappiamo esattamente cosa vogliamo, noi che sognamo anche le clausole di un contratto, noi che abbiamo una sociologia alle spalle di belle parole a farci forti, noi che il pane ce l’ abbiamo sempre avuto e pure la nutella e la marmellata, noi che prima ancora di avere soldi nostri abbiamo già, noi che scendiamo a patti per la realizzazione di un sogno, per la firma a palchetto, e non di una reltà di un fisso mensile. A vederci Aristotele direbbe che abbiamo un logos retorico basato su una presunzione sbagliata: è il buon senso che ci difetta, a noi che non ci vendiamo perchè il prezzo non è quello giusto.
Eh
mi viene in mente il resto “Traducendo Brecht” la bellissima poesia di Franco Fortini che hai messo sul blog. Parole che trascrivo qui, una specie di monito e invito a ricordare questo grande intellettuale italiano:
Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome …
Ciro, Franco Fortini è il mio must. Anche grazie a te
In pratica dici che uno scende a compromessi pure quando accetta di lavorare gratis?
Mi sa che c’hai ragione, mi sa
ho 37 anni due lauree (anche io di Napoli) ho fatto un corso con la regione campania durato quasi un anno: selezione da pazzi (come un concorso) 1200 ore buttate nel water, 500 euro come borsa di studio/rimborso spese e po Niet. L’anno scorso stage alla prefettura : 6 mesi senza nemmeno un euro e po NIET. Sinceramente mi sono rotta di girare attorno a questa palla, tanto lo stesso finiremo sotto ai ponti
io sono una fervida sostenitrice dei 50 giorni da orsacchiotto di troisiana memoria. altro che pane e rose, qua pure un fetente di cracker e un fiore di plastica dei cinesi, per come stiamo inguaiati. olè.
c’amma fà, affidiamoci all’influsso benefico del curniciello, che tra l’altro quando apro questa pagina arrevòta lui solo e mette sempre grande allegria.
(a questo proposito, donna, hai posta)
i miei genitori dicono che per questi motivi che tu elenchi io sono presuntuosa, che non sono una persona SEMPLICE, e lo dicono nell’accezione più negativa che si può dare alla cosa.
io mi consolo ripetendomelo come un mantra “grazie a dio non sono semplice, grazie a dio non sono semplice”
e non lo sei neanche tu
:*
@valeria: si. e te lo dice una che l’ha fatto.
@Luna: prima di tutto mi compartecipo. Allo studio, agli stage, agli euro mancanti. Seconda cosa: io il primo tirocinio che ho fatto nella mia vita ero tutta speranzosa, poi mi è passata pure a me, tipo innamoramento. Mi sa che per noi va bene la frase di Wilde: c’è sempre qualcosa di ridicolo in ciò che non amiamo più (o giù di lì). Ter: una volta, in un periodo del genere ho letto “La scuola dei disoccupati” (tu, se puoi, come consiglio, non farlo). Incrociamo le dita ( e sfreghiamo il corniciello).
@fran: ma secondo te è normale che io mi azzecco con quelli che mi chiedono i soldi sopra l’autobus? Torno a casa il finesettimana e sul pullman. prima di partire, sale sempre sto tizio: vuole vendermi per forza gli accendini i fazzoletti le mollette i calzini. Ho paura che la mia immagine esteriore non coincida con quella interiore. I giorni da orsacchiotto sono, dunque, già arrivati. Speriamo ci salvi il corniciello rosa. (Ho visto la posta. E risposto).
@camilla: la presunzione a me una volta me l’ha buttata in faccia il mio capo: ero andata a fare un esame, mi ero presa il famoso permesso per il diritto allo studio, ma quando sono rientrata ho trovato lui ad aspettarmi, con tutto un corollario di epiteti (fra cui, per l’appunto, presuntuosa). La mia presunzione, nel caso, era quella di aspirare a dare un esame.
Attenzione a scrivere che sei ” nomade, zingara e senza fissa dimora “, perchè se vince il Cavaliere Rialzato, sei a rischio espulsione immediata
ange
@Ange: ehm, ma io di case dove stare, intese come posti letto semigratis, ne ho addirittura due, mi sa che sono molto più vicina a certi canoni. A non avere residenza è la mia professionalità…è un altro ragionamento, dunque. Ma il problema, ovviamente, diciamolo in coro, hai voglia se rimane!
credo che sarebbe il caso di smetterla di lamentarti e anche giocare un po’ meno alla santa comunista pre-carie, ma se non ti manca nulla, e’ uno schiaffo alla miseria ed alla gente che non puo’ permettersi neppure di trattare l’argomento arroganza…chiudi il blog e rimboccati le maniche invece di parlare
Ciao Valerio,
l’arroganza che mi dici dov’è? Trovami la frase, grazie, trovami la parola se sei tanto esegeta.
Io ringrazio sempre per quel poco che ho, dopotutto potrei anche finire in mezzo alla strada del tutto. Sono sicura che allora, secondo te, potrei parlare e aspirare anche alla santità che mi imputi.
Io non cerco atteggiamenti, né direzioni politiche. Il mio obiettivo è all’opposto.
Sempre più spesso noto che quando una persona cerca di raccontare il proprio vissuto viene attaccata come allarmista, pessimista, e giù di lì (via con i suffissi!). Sempre più spesso noto che molte persone, infatti, fanno fatica a guardare in faccia le cose. Hanno bisogno delle Emergenze per farci i conti.
Caro Valerio (nome inventato vero?) di Salerno (eh già sei rintracciabile), anziché fare il troll sui blog altrui apritene uno tu per buttarci dentro tutta la tua frustrazione.
Del resto, penso che il libro “Santa Precaria” sia dedicato anche a te e a gente come te. Avrai delle belle sorprese a leggerlo… intelligenti pauca ;-)
vedi ora grazie a me sei riuscita a dire anche questo…
non prendertela tanto…e’ solo un pensiero…ed il mio nome e’ Valerio anche se non ti piace
Vabbè, adesso ti ho spiegato il mio punto di vista e mi è chiaro anche il tuo.
Valerio/a è poi un nome che mi piace tantissimo, altroché, il nome di una delle mie scrittrici preferite.
dai vale, esci dal circolo del rancore ed entra nel circolo dell’ammmore.
che tipo di lavoro cerchi? forse potrei aiutarti se passi dalle nostre parti…vienici a trovare…anche noi siamo “terroni” o almeno la maggior parte dei colleghi
siamo a Milano in ufficio (e perdonaci per questo, lo so sembra un affronto ma nn mi addentare subito…perchè preciso che non lo è)
Valerio (o presunto tale), ti connetti da Salerno, lo dice il tuo ip. Mo’ coccati, ja.
ma non capisco hai una doppia personalità…il mio messaggio era riferito all’autrice del blog…cmq…caro ciro o simile se sei contento così…che posso dirti…ti saluto ma non so te ma ho altri programmi rispetto al dormire o al cercare ip…vienici a trovare anche tu a milano…
ohò mo bast.
E visto che sei di Milano, Valerio non te la prendere se dico a Ciro una cosa nel nostro dialetto: “O’ purpo adda cocere int’all’acqua soja”
E’ un post molto saggio. Ugualmente, non lo condivido a pieno. Forse per un solo, unico motivo. Il “noi”. Non mi torna. Io guardo gli altri con cui dovrei formare un ipotetico “noi” e ci trovo talmente tanti punti di vista differenti che non posso fare altro che escluderlo, quel “noi”. Forse il nostro “noi” è il vero traguardo raggiunto dai più furbi delle generazioni precedenti: quelli che avevano ben presente che mal comune NON fa mezzo gaudio. Quelli erano competitivi, truci e ignoranti, ma avevano fame e questo li giustificava, almeno a chiacchiere. “Noi” continuiamo a nasconderci dietro a un “noi” che non esiste. E lentamente ce la pigliamo nel culo.