Cioè, io pensavo di avere una vita bella difficilotta. Cioè, lo sapete: la vita
Io credevo che la difficoltà di scrivere c’entrasse molto con la difficoltà di credere al potere delle parole. Cioè, era un annetto più o meno che io pensavo che invece di parlare e di scrivere, era molto meglio stare in silenzio. Scelta saggia, direte voi, per una che campa con le parole, ma che ci volete fare: mi piaceva di più questo fatto di non parlare, almeno non più del dovuto, di non scrivere niente che non fosse stato convalidato da un paio di giorni di riflessione attenta. Insomma, parlano tutti quanti. Dei cazzi loro, per giunta. Come se fossero cazzi di tutti. Cazzi universali. E su questi bei fatti (la parola cazzo si è svuotata di senso) hanno tutti una loro opinione. Anche io avevo la mia, non temete. Solo che siccome le cose che succedevano me la facevano cambiare ogni tre giorni, preferivo pensarci bene prima di dire cose che un paio di settimane dopo mi sarebbero sembrate stronzate.
Ovviamente ho cambiato idea.
Cioè, io pensavo di avere una vita bella difficilotta. Cioè, lo sapete: la vita. La precarietà, il lavoro che mo’ ti rinnovano e mo’ non si sa, l’affitto da pagare, la spesa da fare, 7 euro sulla carta, il dentista, un ex particolarmente stronzo. Finanché per la crisi dell’editoria, me la sono presa. Non scherzo, un giorno ho semilitigato con una tizia, le ho chiesto se c’erano problemi, e quella mi ha risposto: sì, il mercato del libro. Il mercato del libro, per dire.
Poi. Poi una sera che ero tornata a casa dopo il lavoro e il contratto e la spesa e il dentista e la crisi della madonnina stampata e quant’è bella Napule ma quanto fanno schifo i trasporti pubblici, ecco, mi è arrivata una telefonata. Quella telefonata non ha cambiato di molto il corso delle mie giornate, o meglio, l’ha cambiato sì, ma la cosa che risulta ribaltata è la mia opinione a loro riguardo. Mi sembra di avere giornate bellissime. E che le battaglie che faccio sono piccolissime e andrebbero condotte con onore, con allegria, perché sono quelle che uno, se si impegna, non dico che le vince tutte, ma ha buone possibilità. Oggi ho a che fare con qualcosa che vuole battaglia uguale, e che uno spera di vincere uguale, ma che ha numeri freddi e belli chiari a dirti: queste sono le statistiche, questa è la possibilità, e non importa se te ne vai a Milano o a Napoli o a Salerno, i numeri sono questi, le armi pure, il dolore uguale, e i sentimenti beh, i sentimenti sono cosa secondaria. L’unica sofferenza che è ammessa è quella fisica, e mi pare anche giusto.
Parlo di una malattia, sì, e su questo blog invece di solito si parla di altre cose, ma mi sembrava di fare un torto ad una persona che non se lo merita per niente, cui voglio bene, quello di stare zitta. Come se non si potesse dire, perché è troppo: brutto, pesante, depressivo, ansiogeno, pauroso, doloroso, terrorizzante (scegliere la parola preferita), quello che dobbiamo affrontare.
Non credo più che il silenzio sia la via giusta: credo che le parole servano. Lo so, l’ho visto. Basta dirle alla persona giusta, forse, e se siete fortunati, se avete avuto coraggio, se un paio di battaglie le avete combattute con l’onore e l’allegria di cui sopra, sono sicura, ce l’avete accanto.
A volte mi chiedo la stessa cosa: ma non staremmo abusando tutti delle parole? Troppe chiacchiere, troppa vacuità. E se lo chiede una che ha un rispetto …religioso? per le parole. Il fatto è che parlano tutti. E allora perché non provarci a fare la differenza?
Ciao, bentornata nella blogosfera.
Marina