Nostra signora della Riggiola
Gigi D’Alessio teneva in mano le chiavi del mondo, comprese quelle di certe stanze segrete in cui si può entrare solo la notte. Lui entrava dappertutto, passando dalle televisioni e dalle finestre, dagli spifferi delle porte, sapeva pure le cose che non si possono dire se non cantando. Mettiamo il caso: vuoi dire al tizio che ti ha spezzato il cuore a più parti, passandoci sopra prima col calcagno, poi con la ruota dello scooter e infine col camion a rimorchio che guida la mattina per consegnare le riggiole ai cantieri, che nonostante ciò ancora gli vuoi bene, che il bene tuo si è esteso per mancanza del suo, che il bene tuo è una specie di cementina liquida sul pavimento, riggiola dopo riggiola dopo riggiola a coprire tutta la superficie cucinotto-soggiorno. Allora Gigi D’Alessio ti aiuta, ti può aiutare solo lui con Sconfitta d’amore. Se Sconfitta d’amore non riesce, allora si passa a Nu piezz ‘e carta.
Marina aveva quindici anni e la sera , quando si stendeva sul letto a castello, dal soffitto, così vicino alla testa che bisognava alzarsi piano piano, scendevano su di lei, uno ad uno come certi dei dall’olimpo, tutti i neomelodici inventati da Gesù. Gesù stava leggermente più in alto, in plastica di poliuretano, fissato alla cornice di stucco del lampadario in una fila di lucette elettriche che gli illuminavano i capelli ritmicamente. Gesù aveva gli occhi semoventi, tu lo guardavi dal basso del lavandino del bagno e lui ti riguardava, tu lo guardavi dall’alto del letto a castello e lui ti rispondeva allo sguardo come un muratore fuori alla finestra. Ogni tanto Gesù faceva anche il finto tonto, restava con le palpebre arricciate come si fa sotto una sfera di sole; allora Marina faceva finta di niente per un poco, poi scapuzziava appena, avanti e indietro con la testa, e Gesù tornava subito a funzionare e a seguirla con lo sguardo. Gesù semovente era un poco come gli altri uomini, pensava Marina. A volte, Gesù semovente era anche un poco come Raffaello nel video ufficiale di Giuro che ti amo. Marina, stesa sulla pancia a provarsi addosso le carezze di tutti i neomelodici, allora sbagliava obiettivo e dai poster di carta passava al busto in poliuterano.
Nei momenti in cui senti cantare per te Rosario Miraggio con Male, non capisci assai, pensi che veramente non hai scelta tra il pericolo e il piacere, che sono quasi la stessa cosa, punti estremi della stessa asticella. L’asticella porta il nome tuo e questo è abbastanza. Marina dopo si vergognava sempre un poco, scendeva dal letto a castello strisciando piano piano sulle lenzuola per non tozzare la capa sotto al soffitto ed evitava lo sguardo semovente con cura.
Lo stesso aveva fatto con Fabio, la sera che avevano scopato sul furgoncino. Lui aveva ventisette anni, stava a casa con la madre e la sorella, faceva il piastrellista da cinque mesi e mezzo e l’aveva fatta passare dietro dicendole di stare attenta a stendersi sulle riggiole, che si poteva scheggiarle, si poteva addirittura romperle, cosa avrebbe detto, poi, al capomastro? Il capomastro era uno stronzo, quando cominciava una nuova pavimentazione cercava sempre di litigare con qualcuno, nello spazio fra la posa a terra della cementina e quella delle piastrelle. Fabio lo raccontò a Marina pulendosi coi fazzolettini di carta e dall’autoradio veniva Gianluca Capozzi con Quando t’annamure; Fabio raccontò, rimettendosi i jeans, della volta che il capomastro si era preso a schiaffi da solo davanti allo specchio dell’ascensore e raccontò, mettendo in moto, della volta che il capomastro aveva stretto forte la bottiglia di Peroni fino a scheggiarsi il palmo. Marina chiese il perchè, con la voce metà divertita che hanno le femmine quando non vogliono farti capire il dolore, e Fabio, con le unghie a grattare una macchia di stucco sulla stoffa tesa della gamba sinistra, rispose che il capomastro lo teneva quasi di buon augurio: si era capito che alzava la voce apposta e se la prendeva coi guaglioni per niente, ma quando si portava una mano alla bocca mordendosi forte il dito indice a trattenere l’arto lo faceva sul serio, come un cane con l’osso. Pareva fosse alla ricerca di un po’ di sangue: c’era bisogno di un sacrificio, perchè la casa venisse su solida. Marina, quella sera, scese piano piano dal camioncino, scivolando quasi a terra con le gambe molli, senza guardarlo. Le piacque che Fabio l’avesse salutata con un bacio sulle labbra, quello sì. L’incontro era stato perfetto, circolare, notturno, come gli incontri sognati coi neomelodici. Si nascose dietro il portone e lo vide far manovra nel vicolo stretto, lo vide girare l’angolo e mettersi a ridere. Fabio rideva sempre per le cose che non capiva, mostrando al mondo una fila lucente di denti bianchi, squadrati e duri, perfetti, dritti come una livella.
Il giorno appresso, Fabio, con in bocca ancora il sapore del caffè tutt’uno con il sapore del sonno, scoprì che il capomastro per quella pavimentazione poteva considerarsi apposto: le riggiole bianche, sul retro del furgoncino, tra segatura e il resto delle sfravicature, erano adesso un solo sangue.
Ben ritrovata Raffaella! Il tuo blog è meraviglioso!
PS: ti ho mandato una mail
un bacione
adele