Estate Altrove, Capitolo 2
Ma la ragazza che sono stata nell’estate 2013 non sa niente dei cambiamenti. O meglio: per la ragazza 2013 esistono solo cambiamenti in meglio. Dunque ride e mi saluta da una torre che sembra quella di un castello delle favole e si trova invece nel Palácio da Pena, Sintra, appena più su e subito a destra della capitale.
La ragazza, insomma, è felice. Ritorna alla stazione, una costruzione bassa e bianca che sembra uscita da un film, con la scritta “Grande Velocidade” in cima, sale su un autobus, scambia battute con un tizio inglese, parte di nuovo, direzione Cabo da Roca, il posto in cui finisce la terra, termina l’Europa, e comincia il mare. Di paesino in paesino, spiando dal finestrino, scopre piazze in cui si festeggia qualcosa, il cine-teatro di Almoçageme, case basse e bianche e un piccolo bar nelle campagne, intitolato pomposamente “Cafe Ocidente”: solo in serata, la ragazza approda a Cascais, il cui primo luogo che visita è un negozio di vestiti, perché fa freddo e c’è bisogno di una giacca anche qui, proprio come era successo a Dublino, ti ricordi?
E dire che all’inizio Lisbona le aveva fatto un effetto tremendo: le pareva di aver lasciato Napoli per trovarsela davanti di nuovo a tre ore e mezza d’aereo, 2.709 chilometri di distanza e circa seicento euro in meno sul conto. Gialla, sporca, piena d’afa e caldo, battuta dallo scirocco, vuota di persone e zeppa di: gatti che strusciano sul Terreiro do Paço alla ricerca di qualcuno che allunghi un’alice salata sotto al tavolo; tizi che vendono hashish tra il Largo São Domingos e la stazione del Rossio; funicolari per salire in collina e ascensori per cambiare quartiere. Ma è un’altra lingua, una lingua che non capisce, e altri modi, più schivi, più dritti: la ragazza sbuffa, non le piace sentirsi a casa solo per un quarto, estranea ma non del tutto. Al campo de Santa Clara, c’è un mercatino delle pulci, la Feira da Ladra, e la frustrazione ha la meglio, insieme al caldo e al sole che non danno scampo: la ragazza bestemmia, si arrende, si siede, decide, ammette. Ha sbagliato destinazione. L’idea, idea stupida, per fortuna le passa quasi subito.
Non so dire quando è successo, ma so il dove: l’Arco della Rua Augusta che le fa venire in mente un arco inesistente a via Raffaele De Cesare, Napoli. Qui, alla fine, non c’è il mare, i chioschi dei taralli caldi, Pacioccone che fitta barchette, innamorati che si baciano sugli scogli. Qui, alla fine, c’è il Tejo e, come nella canzone dei Madredeus, sembra l’unica cosa vera della città, un fiume che corre avanti da millenni senza pentirsene. La ragazza si toglie i sandaletti, va a bagnarsi i piedi nella massa d’acqua che entra sulla piazza prima di diventare oceano senza paura.
Da questo punto in poi, della ragazza io so tutti i posti in cui è stata e tutti, o meglio, i più importanti pensieri che le attraversano la testa. So dove e con chi ha comprato quel vestitino rosso, so la ginjinha che beve in un baretto piccolissimo e affollato, la birra Sagres che va giù come acqua, il vinho verde che le toglie la sete di sera senza stordirla, le uniche parole che si è data cura di imparare in portoghese e cioè:“Quanto custa para ir à rua Dona Estefânia?“, frase che ripete ogni sera, contrattando fino alla cifra di euro 6.
C’è un vecchietto, tra l’Alfama e la Mouraria, che le spezza il cuore a due parti, come un melograno. Vende strofinacci su una stradina in discesa, dentro un vano che, fossimo a Napoli, chiameremmo basso. Lei ci si è fermata perché è il primo che incontra appena fuori dal circuito turistico del Castelo de São Jorge ed è anche il primo che le sembra autentico. Il vecchietto non la molla più. Non gli frega che la ragazza non capisca assolutamente niente di ciò che dice: il vecchietto racconta la storia della sua vita, connessa nella trama a quella di ogni singola pezza che ha nel negozio.
Lontano dal centro, dietro i grandi viali di auto delle Avenidas Novas, c’è una bettola – è questa l’idea che dà – una bettola bellissima e sempre piena: si chiama “A floresta da Estefânia” e lei la adora, ci mangia quasi ogni sera per poco prezzo cose buonissime che hanno nomi assurdi tipo: bacalhau à minhota, bolo de caco,secretos de porco. Teme sempre di scoppiare a ridere durante l’ordinazione. A prenderla, c’è un uomo baffuto in canottiera, il tipo muratore anni ’70 con basette lunghe sulle guance abbronzate che porta a tavola, senza che nessuno lo chieda, olive verdi molto piccole, pane e formaggio. La ragazza mangia anche altre cose, tutte cose buonissime che si sente di consigliare, per quanto frutto di accostamenti strani: l’insalata di morangos e atum, fragole e tonno, ad esempio, o il Pão de Deus, una brioche di pane fritta con lo zucchero e ripiena di formaggio e prosciutto cotto (sì, suona male, malissimo, ma fidati: è buonissima).
La ragazza vede. Vede cose che le fanno gli occhi larghissimi, pieni di vento. Le persone come puntini sulla mappa del mondo dalla torre di Belem. Il fiume che si apre e diventa oceano da un battello. Il mare che si fa terra sotto i piedi, il cielo unico spazio, da una teleferica. Le mattonelle bellissime, gli azulejos bianchi e blu, che si rincorrono in un museo dedicato a loro. I tossici che fanno la fila fuori alla clinica che dà il metadone. I saliscendi infidi delle strade acciottolate, le scale e le gradinate su cui puoi romperti il collo, i miradouro stupendi e i palazzi vuoti, decrepiti e bellissimi, la luce giallastra e l’acqua verde, i tram zeppi su discese ripide e strette, e i quartieri disastrati come se ci fosse stata una guerra l’altro ieri.
Poi va a vedere l‘Estadio da Luz, lo stadio del Benfica, e il Cristo-Rei, appena passato il Ponte de 25 Abril su un autobus zeppo di persone. Arriva su una lunghissima distesa di sabbia fine e scrocchiante, color carta da pane, la costa da Caparica che corre per 13 chilometri, slanciata nell’oceano atlantico. In suddette acque ghiacciate nonostante i 38 gradi, la ragazza si tuffa.
Poi, straccia l’avversario al biliardino di un lido, l’Espaço 20. La radio, in quel momento, sta passando una hit dell’estate, titolo Call me maybe, interprete Carly Rae Jepsen, e la ragazza ha come un presentimento: questo attimo così semplice, uguale a tanti altri, replicabile da qualche altra parte, lei lo ricorderà. Come uno dei momenti perfetti, in cui non succede nulla e va tutto bene. La ragazza non sa che non è così. Ha i capelli cortissimi e nella maggior parte delle foto indossa un ridicolo cappello di paglia. Non ha idea di ciò che la aspetta di lì a qualche mese.
Grazie per aver seguito lei e me fin qui. Prima di lasciarti, come promesso, una canzone, un libro, un fatto sulla settimana che comincia.