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Walk of life
racconto per il nuovo anno

Alle 13,58 del 10 dicembre alzo il bicchiere e brindo.

Lo so, sono in anticipo e raggiungere qualcosa prima del tempo ha i suoi rischi, come quello di arrivare al traguardo da soli, ma in questo caso si può fare: l’unico posto che ho toccato prima che fosse il momento è stato il bancone del bar, e il bancone del bar, per quanto ben fornito sia lo scaffale degli alcolici, non è mai la luna.

Per questo motivo non ci sono rimostranze da fare se le televisioni non riprendono la scena, se i giornali non ne parleranno e se nessuno si congratulerà con me. Il tragitto che ho fatto per essere qui oggi è cosa ignota ai più, e per raccontarvi tutta la storia il tempo a disposizione non sarebbe abbastanza, vi basti sapere che è stata dura. Cosa molto più indicativa del conto del miei guai – non vi penso insensibili, tranquilli, solo occupati coi vostri – nessuno se ne è accorto. 

Non vi biasimo: non è cosa naturale pensare che dietro una giovane donna che raggiunge il banco di un bar e ordina un prosecco in un pomeriggio pieno di sole ci sia un percorso militare. Forse qualche indicazione potreste averla da quel velo di stanchezza che mi si è posato addosso come una polvere, o dal modo sbrigativo  in cui sono acconciati i miei capelli, ma ho l’età in cui è più semplice riconoscermi una notte brava con conseguente mal di testa, che biglietti di treni che risalgono e riscendono l’Italia, decisioni prese in solitudine e senza paura, e senza domande tranne: Come arrivo in centro?

In questi tragitti, spesso parlo con uomini. Non è una questione di genere, non si tratta di attrarne uno più di un altro, è che all’ora in cui viaggio io ci sono solo tizi in giacche e cravatte e valigette che leggono il Corriere: non sono una donna in quel momento, sono l’intruso del gioco, loro mi trovano, mi pescano con lo sguardo puntando le mie cuffiette o i miei libri o i miei stivali. La maggior parte, per mia fortuna, resta in silenzio. Altri sorridono e pensano che il sorriso basti a farmi prendere la parola, come fossimo sul palco alla consegna di un Oscar, e sì che sto recitando, e anche bene, la parte di quella che è sveglia anche se dormo, in una parte di me, a sonno pieno, e non mi sveglia niente.

Tornavo da una città fredda per giungere in un’altra città, con la temperatura più alta, ma sempre ammalata di vento, e mi si siede accanto lui, non si toglie neppure il cappotto come se due ore di viaggio fossero un fatto breve, cala la coppola sugli occhi e si mette a dormire. Dividere il sonno con un perfetto sconosciuto, se questa può chiamarsi promiscuità è la formula che mi piace di più. Ci hanno svegliato i rumori dell’arrivo, solo allora mi ha guardato e mi ha chiesto: Sei sola?
Non rispondo a domande del genere. O meglio, non rispondo nel modo in cui ci si immagina. Infatti gli ho chiesto ce credeva in Dio.
– No, non proprio.
– Allora sono sola, esattamente come lei.

È infinitamente raro trovare qualcuno che sappia dire qualcosa in rimando a cose del genere. Se lo trovate, tenetevelo stretto. Significa che avete un alfabeto comune. Che sapete uno i punti deboli dell’altro, i punti deboli sono sempre nella lingua.

Non sto dicendo che le parole sono tutto: le parole non sono niente. Sto dicendo che l’atto della risposta invece lo è. Ed è qualcosa di cui si dovrebbe esser grati, sempre e comunque. Se trovate qualcuno che sa rispondervi sempre e comunque, ecco, ringraziate Dio che se c’è o no, in fondo non ne ho idea, non come ho lasciato intendere all’uomo che forse s’aspettava d’essere accolto come Ulisse, e invece mi è rimasto lì muto, come se gli avessi tirato uno schiaffo. È sarcasmo, volevo dirgli, lei ne è semplicemente sprovvisto o ha avuto una giornata dura? Poi ho lasciato perdere.

Un tempo amavo un uomo che mi incolpava di possedere poca ironia, “quanto un criceto”, più precisamente. Un tempo ne amavo un altro che diceva che avevo l’educazione sentimentale da rifare e quando provavo a controbattere silenziava il nostro rapporto e lo metteva in stand-by come un elettrodomestico. Per un certo periodo ho parlato come se volessi prendere qualcuno a calci. Metaforicamente, s’intende. Poi mi è passata.

Non ha cambiato molto il mio modo d’essere questo cambio d’alfabeto: resto una che va veloce, ha sonno, e brinda con un prosecco alle due di pomeriggio, ma devo dire che l’esser pungente può tenere lontane molte cose spiacevoli. E mentre ero persa in questi pensieri che a voi sembreranno poca cosa – li avrete già letti, e immagino starete già traendo le vostre personali conclusioni in merito – , l’uomo ha parlato ancora, ha detto che per il nuovo anno aveva dei buoni propositi: perdonare e dimenticare.

Dunque, lei si ritiene Gesucristo e soffre di arteriosclerosi, ho suggerito.

Finalmente ha riso e mi ha lasciato libera di alzarmi in piedi, prendere la borsa, salutarlo, scendere, cercare un autobus, prendere una metro, attraversare la strada, ordinare il mio prosecco, e raccontarvi questa storia.

A proposito, giacché ci siamo: si dimenticano e si perdonano solo le cose per cui non si hanno più parole, o ironia, o sarcasmo. Vi auguro di non averne: io, personalmente, ho brindato proprio a questo.

Il posto giusto per fare programmi è la tua agenda

Fare compagnia alle giornate di una persona è cosa complicata: c’è l’ordine pratico da rispettare, la colla di azioni da compiere come far la spesa, recarsi a lavoro, rispettare scadenze, il necessario margine per gestire anche le incognite del quotidiano senza mai perderne la prospettiva lunga.

Chiedersi: quello che lei/lui farà oggi, quali sviluppi avrà da qui ad una settimana? Una domanda semplice ma a cui nessuno può rispondere a cuor leggero: tenere conto della vita di un altro significa, soprattutto, scaglionare la propria. E’ un compito da madre e da padre, è un compito da innamorati, quello di guardare alla giornata di una persona che non sia tu con lo stesso entusiasmo e senso pratico che avresti con te stesso.

Un’agenda questo fa. Potreste obiettare che un blocco di fogli recanti le date da qui ad un anno non è una persona, ma è fatta da persone. Qualcuno, mesi prima di oggi, ha deciso per i colori dei tuoi giorni, ha scelto di fornirti una vista lunga da qui ad una settimana, di cadenzare le ore della tua vita lavorativa e sociale in righe da riempire.

E’ anche vero che oltre questi margini tecnici, nella vita di ognuno di noi esiste una quota parte lasciata alla bellezza o quanto meno alla sua ricerca: dell’interesse per qualcosa che non sia  impegno sulle spalle io non so dire male. Quello spazio riservato alle personali inclinazioni, agli amici, a quelli che abbiamo scelto o si sono fatti scegliere come compagni è importante tenerlo a mente. Un’agenda può far questo? Quella di cui vi parlo sì.

Ogni mese, per dodici mesi, vi parla di qualcuno che non siete voi, con una storia che non è la vostra, ma che in un certo senso conoscete: è la vita di Peppino dei Quartieri Spagnoli che vi è sfrecciato davanti mentre attraversavate via Roma, è l’esistenza di Marco che non vede, ma cammina in questa città proprio come voi, è il giorno di Ana, Maria e Natasha sedute sul ciglio della strada che vi porta al lavoro. 

Di Napoli si parla molto, spesso troppo e le cose che si raccontano di lei sono già cronaca, hanno il passato nel codice genetico: possiamo allora indignarci, intristirci anche, ma non possiamo far molto perché la prima regola di ciò che è raccontato è che non lo si può più cambiare. Le storie che abbiamo scelto, invece, sono in itinere: nessuna di loro è conclusa, per nessuna di loro non si può far niente, tutte necessitano di qualcosa che sia riconoscimento, coscienza, accanto alla propria vita, della vita di un altro.

L’agenda di cui vi parlo la presentiamo domani 14 dicembre, alle 15,30 alla libreria EvaLuna di Piazza Bellini. Ha tre colori e un solo nome, che è un verbo al gerundio: Agendo. E di azione parla, declinata sia nelle milleuno cose da fare a cui tutti noi andiamo incontro svegliandoci ogni mattina, sia in un agire meno dettagliato ma non per questo meno concreto: è sostegno, è sincero interesse, è ideale, è aiuto per chi ha bisogno, chiamatelo come preferite, io lo chiamo amore, da intendersi in senso lato: è voglia di fare per il posto in cui viviamo, per la gente che lo popola, per le vite degli altri, per la propria, per il prossimo anno, che sia migliore di quello appena passato.