5 buoni motivi per vivere nel mito degli ABBA per un paio d’ore, ovvero:
i vantaggi del non incontrare nessuno che conosci mentre canti e balli Mamma Mia
Essere una fan degli ABBA, anzi, ammettere di essere una fan degli ABBA è un po’ come dichiarare, pubblicamente, di apprezzare i Cugini di Campagna e di sentire la loro mancanza: se ti va bene e ti chiami Baglioni ti ci fanno fare un programma tivù sul revival anni Settanta, e se ti va male finisci sul palco del museo a loro dedicato a cantare e ballare con gli ologrammi di Agnetha, Björn, Benny e Frida intorno a te, mentre la gente, in maggioranza di origini asiatiche, applaude. E questo è quello che succede quando sai di essere una fan: quando invece non te ne rendi conto quello che accade è un po’ come quando scopri di essere innamorata di uno che Oh Dio Mio, non è che non puoi presentarlo ai tuoi genitori: non puoi presentarlo alla tua coscienza.
Ciò detto, il primo passo è ammettere di provare qualcosa per gli ABBA, ecco. E sì, di conoscere alcune canzoni dei Cugini di cui sopra (io ad esempio so quella delle castagne al fuoco, questa notte finirà e poi, se vuoi, meravigliosamente mia sarai). Accertatevi poi di non essere Baglioni: se non lo siete, il vostro destino è segnato: per agevolarlo, a questo punto, basta andare a Djurgården, isoletta di Stoccolma, nei circa duemila metri quadri dedicati alla band a tentare di recuperare il tempo perduto. Il museo degli ABBA per me è stata una specie di fornitissima dark room musicale: non fate i maliziosi, voglio solo dire che ero in un posto dove nessuno mi conosceva e potevo tranquillamente ballare su Dancing Queen, commuovermi sul video della premiazione all’Eurovision Song Contest del ’74, canticchiare Waterloo e perdere definitivamente ogni inibizione su Mamma mia.
Ma andiamo con ordine, perché ho delle prove, delle motivazioni, a mio supporto, che vanno esposte.
Nel 1994 esce questo film, “Le nozze di Muriel”: protagonista una ragazzona australiana socialmente imbarazzante che vive nel mito del quartetto svedese, una specie di Bridget Jones ante litteram, insomma. Nel video qui sotto, la scena topica: Muriel, e io la amo, sta sposando un tizio bellissimo, che è lì solo per garantirsi la cittadinanza e la partecipazione alle Olimpiadi. Ma quella che ha più interesse nella faccenda – un personalissimo, dignitosissimo interesse – è lei: la nostra è pratica e realista, e dal matrimonio in questione non si aspetta altro che percorrere la navata centrale su “I do, I do, I do, I do”, cosa che fa. Nota a margine: avrò visto questo film centoventi volte nella fase più critica dell’adolescenza.
Il motivo numero 2 è che Dancing Queen è la versione musicale di “Nessuno mette baby in un angolo”, ma molto più femminista: non so se avete mai visto In&Out e la scena in cui il professore tenta di non ballare per provare a sé stesso di non essere gay. Dancing Queen è l’equivalente per scoprire se siete potenziali fan della band e se condividete la loro filosofia. Cliccate qui e sappiate che non esiste nulla di più liberatorio che lasciarsi andare mentre qualcuno ti ricorda che sei la reginetta del ballo, giovane e dolce, appena diciassettenne e puoi ballare, puoi scatenarti e goderti la tua vita. L’uomo che dovrebbe fungere da alleato nel tragitto verso il palco non viene menzionato direttamente: gli Abba dicono solo che chiunque dei ragazzi presente sulla pista potrebbe essere quello giusto, ma non si aspettano che arrivi Patrick Swayze: “See that girl, watch that scene, dig in the Dancing Queen”
Il terzo punto è che Mamma Mia è il testo base di ogni approccio alla cosa amorosa disfunzionale. In pratica, sapete quel genere di rapporti chiamati tira-e-molla? Sì, sono sicura di sì. Dare un costrutto musicale e un senso letterario alla cosa è un’operazione riuscita solo a pochi noti, di solito con testi lacrimevoli o una serie di femmine sull’orlo del bipolarismo indotto. Con gli Abba è tutto molto più semplice: quando lui molla si sta mostrando per come è realmente, e quando tira, sta indossando un costume con le paillettes e i pantaloni a zampa d’elefante, nonché un paio di discretissime zeppe al solo scopo di confonderti. La cosa, tra l’altro, risulta ballabile. Il quarto e il quinto punto sono dei corollari: se avete seguito le mie istruzioni state già cercando un volo per Stoccolma. Ma giacché ci siamo, sappiate che la canzone più triste degli Abba, che parla di guerra e carestia nonché di giovinezza perduta, si chiama Fernando (ed è una delle mie preferite) e che sono riusciti a rendere deliziose anche le recriminazioni tipiche della fine di una storia, con The winner takes it all, una versione in lingua inglese di Mo che vaje truvann’?
NdR: molte delle canzoni qui citate sono state cantate e ballate dalla sottoscritta nella giornata del 14 agosto come da foto. Molti di voi correvano verso il mare, insomma, io ho preso un traghetto e mi sono infilata negli anni Settanta per un paio d’ore, apprezzando i vantaggi del non incontrare nessuno che conoscessi nel mentre.