Intervistare Franca Leosini, la donna delle interviste
Blazer d’ordinanza, chioma leonina meravigliosamente composita, il suo lessico va oltre il fondamentale, quel «vocabolario di base» analizzato dal GRADIT di Tullio De Mauro, al punto da avere un hashtag apposito: #dilloconFranca. I fan adorano le sue metafore, una delle immagini più in voga recita «Only Franca Leosini can judge me» ma non tutti sanno che ha cominciato intervistando Leonardo Sciascia. Pubblicata su l’Espresso nel 1974 con il titolo “Le zie di Sicilia”, l’inchiesta fece scalpore: lo scrittore denunciò, infatti, il ruolo della donna siciliana nella criminalità organizzata. Ma lei, napoletana, laureata in Lettere Moderne, ex collaboratrice all’Espresso, ex direttrice di Cosmopolitan, giornalista, autrice e conduttrice, a fare domande capaci di metter pace agli incubi delle cronache più nere ha continuato. E il suo modo di lavorare a dir poco scrupoloso, sembra partire proprio da un punto interrogativo: se potessimo leggere la storia segreta delle persone, saremmo capaci di giudicare nettamente i cattivi? Forse è per questo che è così amata. Posso farle qualche domanda?, chiedo. No, − risponde − non se mi dai del lei. E quindi, sto per dare del tu a Franca Leosini.
Alla presentazione dei palinsesti della Rai sono state annunciate le nuove puntate di “Storie Maledette”. La tua è un’estate di lavoro. Smetti mai?
«La mia è sempre un’estate di lavoro, anzi, il mio impegno è di non smettere mai di lavorare. Ad esempio: tra qualche giorno andrò in vacanza, ma il primo strato della mia valigia è composto da atti processuali. Li leggo, li studio, sono importantissimi per me, compongono quel grande romanzo della vita da cui nasce “Storie Maledette”. Poi: ho la fortuna di fare un mestiere che amo, a maggior ragione non lo lascio mai! C’è la parte razionale che richiede studio e concentrazione, ma c’è anche quella umana, capace di sensibilità, mossa dalla passione. La passione è alla radice di ogni tipo di attività e io metto passione anche nel fare la maionese!».
Ci sarà un momento in cui però lasci da parte la professione, spero. Come passi il tempo allora?
«Ho una casetta a Capri. La mia estate è nel mio Sud: vivo a Roma, ma Napoli, anche se ci vengo poco, la sento mia, è la mia isola felice».
Quando torni a Napoli la trovi cambiata?
«Il mio è un giudizio delegato: passo poco tempo in città, le feste comandate. Ma quando dico che sono napoletana allora parte sempre un coro di ammirazione: i miei colleghi, gli amici che la visitano, ne sono sempre entusiasti, mi dicono che hanno trovato Napoli più pulita, più ordinata di come se l’aspettavano. Noi napoletani siamo forse più critici, ma lo facciamo in virtù del nostro grande amore per la città».
E questo amore coincide con il primo ricordo estivo?
«I ricordi dell’estate sono sempre legati al cuore e dunque sì. C’è una gita in barca con i miei genitori, ero una ragazzina: sono cose che poi la vita non ti ripropone più ma che restano, una sorta di fotogramma fisso. E forse, per me, il paradiso è una barca nel mare, sotto il sole».
In primavera sei stata al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia: Antonio Sofi ti ha intervistato a proposito del tuo metodo giornalistico e del racconto televisivo e hai detto di essere contraria alle repliche dei tuoi programmi. Eppure in estate farebbero piacere a tanti «leosiners», i tuoi fan, ne sono sicura.
«I leosiners mi gratificano tantissimo: ho partecipato ad una conferenza da poco alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, ed erano tantissimi, saranno stati trecento. Tutto ciò mi fa così piacere. Ma sulle repliche non cambio idea e per fortuna la rete capisce e rispetta la mia scelta. È un fatto etico, c’è bisogno di attenzione: dopo “Storie Maledette” le cose mutano, la vita va avanti e cambia anche per chi è dietro le sbarre. Si modificano rapporti ed esistenze, alle volte sono io stessa a farlo. Trasmettere una replica può avere un impatto importante sulle persone che si trovano in carcere. Ci sono cose su internet, certo, ma guardarle lì nasce da una scelta, è diverso dal ritrovarsele sul teleschermo».
Hai spiegato che per te esistono tipologie diverse di delitti tra il Nord e il Sud dell’Italia. Da dove nasce questa convinzione? Lo pensi ancora o c’è un caso che ti ha fatto cambiare idea?
«Sono ancora convinta che la lettura del nostro Paese potrebbe esser fatta partendo dalla storia dei delitti privati. Nel nostro Sud sfregiato da altri crimini, altri delitti, sono certa, ad esempio, che una storia come quella di Olindo e Rosa Bazzi non potrebbe accadere. Usandolo come una sineddoche, un delitto di questo genere a Napoli, la nostra amata città segnata da altre violenze, non lo immagino. C’è un tipo di appartenenza, c’è quella che io chiamo «vicoleria» ad incidere. Poi c’è un’altra cosa che ci dicono i dati».
Cioè?
«Che a Nord ci sono più delitti di donne. A me viene l’orticaria al termine “femminicidio” quindi non lo uso, ma è laddove le donne si affrancano nell’ambito lavorativo, sono più indipendenti, hanno la capacità di scegliere il destino della coppia, che avvengono più violenze su di loro perché è questo che gli uomini non accettano. A Sud alle donne spetta ancora quel ruolo di mediazione. La cosa che si ritrova ovunque, invece, a Nord come a Sud, è la mal-educazione, intesa come mancanza di un’educazione culturale vera, forte. La violenza sulle donne secondo me si combatte oltre le leggi come quella sullo stalking che è un’ottima cosa, ma non è sufficiente: la cosa necessaria, in tutto il Paese, è educare dall’infanzia, a casa e tra i banchi. Parliamoci chiaro: ho potuto constatare che gli uomini violenti sono figli di un contesto violento. La famiglia allora è importante, ma ancora di più lo è la scuola: forse servirebbe un po’ di latino in meno e un po’ di educazione civica in più».
Hai diretto Cosmopolitan e ho letto che andasti via perché la linea americana sopravanzava quella italiana. Ti piace il modo in cui i media nostrani raccontano le donne oggi?
«Io odio generalizzare, trovo che sia sempre un crimine: e dunque, ci sono giornalisti che le raccontano bene, altri che non lo fanno. Ma non mi piace nemmeno fare nomi, né da una parte né dall’altra: potrei dimenticare qualcuno».
C’è un sottogenere di gialli estivi che affollano le cronache, ne abbiamo uno ogni anno: da Garlasco nel 2007 a Sarah Scazzi nel 2010 fino a via Poma e Simonetta Cesaroni nel 1990, ti sei occupata di quel caso per “Ombre sul giallo”. C’è chi li chiama delitti d’agosto, avvengono proprio quando le città si svuotano in occasione delle vacanze. Cosa ne pensi?
«I crimini si sono così moltiplicati che non credo si possa più parlare di delitti d’agosto: oggi c’è il delitto del giorno. La violenza è pane quotidiano, le storie di cui mi chiedi sono una memoria antica, con tutto il rispetto per le vittime. Oggi a segnare la nostra vita c’è molto altro, altroché delitti dell’estate».
Un’ultima domanda a proposito d’estate e delitti: sotto l’ombrellone leggi libri gialli?
Ride. «Mettiamola così: leggo i libri che mi interessano. Amo il linguaggio, non il genere. Il giallo, detto così, per me non significa niente: ad interessarmi non è mai la trama ma il modo di raccontare. Poi, se penso ai miei autori preferiti, se penso a Truman Capote o a Emmanuel Carrère e a “L’avversario”, sì, mi rendo conto che possiamo parlare di gialli, ma è una cosa che viene dopo: per me l’importante sono le parole per dirlo. E questo sempre, tesoro*».
*Mi ha chiamata tesoro. Sì.
(Questa intervista è stata pubblicata dal quotidiano IL MATTINO nell’agosto 2016. La ripropongo qui perché non esiste un archivio online del giornale).