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Chiara Ferragni, il vestito è il messaggio. Ma quale?

Che durante la prima serata della settantatreesima edizione del Festival Sanremo uno dei maggiori temi di discussione non avrebbe riguardo né canzoni né cantanti, lo sapevamo. Chiara Ferragni nelle vesti di co-conduttrice la aspettavamo: chi la adora con trepidazione, senso di rivalsa e orgoglio, chi non l’ha in simpatia, al varco, con l’occhio attento alle possibili falle, errori, incrinature nello stile. Io, che ne ho sentimenti piani, la seguo sui social e ho visto pure “Unposted” trovandolo meglio di quanto pensavo, ero invece in attesa di una nuova puntata dello storytelling. Il primo assaggio l’ho avuto alla sua comparsa di spalle: una stola immacolata, all’apparenza trapuntata, che strizza l’occhio, temporaneamente, a tre cose insieme: il meteo di febbraio con l’ondata di freddo gelido, la tendenza moda 2023 che vuole capi spalla oversize, e il mio stare lì sul divano, davanti alla tivù, con una copertina sulle spalle. Quella di Chiara era anche un manifesto, e il messaggio in maiuscolo nero glitterato di due parole appena: PENSATI LIBERA. Lo scialle-manifesto che, come spiega la direttrice creativa di Dior Maria Grazia Chiuri, ha un’ispirazione importante e che rivendica l’atto politico dell’immaginazione per ricreare la realtà, appare però incline al farsi meme seguendo regole e principi dei social network: la frase può essere facilmente cancellata e rimpiazzata da altri messaggi, cosa regolarmente avvenuta. Emerge allora la sottotraccia narrativa: la differenza tra il pensarsi in una determinata maniera ed esserlo sul serio. 

Quando Chiara Ferragni, al primo cambio d’abito, torna sul palco con indosso una mise anatomica – tipologia già sfoggiata da Madame nel 2021 – dice, mentre Amadeus invita alla calma: Posso tranquillizzare tutti io? Non sono nuda, questo vestito non è trasparente. È un disegno del mio corpo” e anche “Il corpo di noi donne non deve mai generare odio o vergogna”. Ma la rassicurazione e negazione contenute nella prima frase sembrano contraddire la seconda: se non c’è di che imbarazzarsi e avere timore, se la ripugnanza e il rancore vanno doverosamente accantonati (e il pubblico che applaude e grida “sei bellissima” chiarisce la buona disposizione) che bisogno c’è di tranquillizzare e soprattutto, chi? Sul palco di Sanremo, si conferma allora l’atto più comunicativamente sovversivo il finto pancione di Loredana Berté nel 1986: in seguito lei stessa lo descrisse come “un costume pazzesco disegnato per me dal grande costumista Sabatelli. Per molti è stato un errore, ma per me no. Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è ancora più forte!”; ai tempi, si scatenò il dibattito e la polemica. Dalle pagine de La Stampa, Aldo Carotenuto descrisse l’episodio come “degno di un discorso psicologico”: “Una concorrente già famosa si è presentata ostentando una pancia che in maniera inequivocabile alludeva ad una gravidanza avanzata (…) C’è da chiedersi se la sua sconfitta sia dipesa non tanto da scarse capacità artistiche quanto piuttosto da una reazione emotiva del pubblico che, non votandola, l’ha forse punita dell’incauto travestimento. Se la ragione della sconfitta è dipesa da questo particolare, ci potrebbero essere varie spiegazioni che affondano le radici nella dimensione più inconscia degli uomini”.

Pensando alla mise di Chiara Ferragni, mi chiedo: se il disegno non fosse quello del suo corpo, ma del mio dopo un anno di tiroide impazzita e varie ed eventuali, se fosse il corpo di una di noi che non ha avuto tempo, modo, possibilità di un’estetista, se pensandoci libere non avessimo problemi o vergogne o imbarazzi nel mostrarlo, sarebbe ben accolto uguale da chi guarda? Mi torna in mente un verso di “The Armpit Song” (La canzone dell’ascella) di Siwan Clark che dice: “A volte penso di poter conquistare il mondo, ma prima… Oddio, devo sfoltire le sopracciglia. E, oddio, devo depilarmi le gambe. E devo fare la pulizia del viso e tonificare la pelle“. Come si combina, dunque, il pensarsi libera con il mostrarsi fintamente nuda ma aderente a questo genere di routine beauty care? Passare dal parrucchiere per un rapido aggiornamento della capigliatura alla tendenza del momento – un box bob già ricercatissimo – prevede la convalida di una delle battaglie settimanali se non quotidiane a cui una donna deve prendere parte, volente o meno: l’aspetto fisico. Chiara Ferragni appare allora più che affrancata, padrona. Niente di male, ma questo tipo di padronanza non è la diretta conseguenza della sicurezza in sé stessi, dell’indipendenza, della libertà o dell’autonomia; ha più a che fare con la capacità di acquisto servizi e tempo da dedicargli perché siano solo un piacere e non un ulteriore aggravio di cose da fare per incontrare il consenso di qualcuno o di se stesse, per nascondere l’umanità, la discendenza dalle scimmie, la testa e l’agenda presa da altre cose. Pensandoci libere, chiediamoci: saremo mai libere, per un giorno e in pubblico, di essere fuori moda e fuori dai canoni vigenti senza odiarci o essere odiate, senza dover tranquillizzare nessuno? Ferragni indossa ancora un abito degno di nota: quello che lei stessa, sui canali social, presenta ora come il vestito contro l’odio, mostrando però il dito medio. La didascalia dice: “Con questo abito peplo portiamo sul palco del teatro Ariston alcune delle critiche rivolte a Chiara sul suo aspetto, sul suo corpo e soprattutto sulla sua libertà di sentirsi donna oltre che mamma. Le frasi di disprezzo ricamate in perle nere sono le vere offese che ogni giorno gli haters rivolgono alle sue foto”.

Per Chiara Ferragni il vestito è il messaggio e paradossalmente è più forte, c’è più da dire e di che ragionare di quanto succede con il monologo. La lettera a se stessa bambina, in cui la parola insicurezza ricorre più e più volte, riassumibile in “non temere, è andato/andrà tutto bene” ci dice principalmente due cose: la prima, che Ferragni è consapevole del target a cui si rivolge e che ricambia con affetto; la seconda, che è una giovane donna di successo e nel corso degli anni si è conquistata affermazione, attenzione e consenso da parte del pubblico, ma la notorietà in bene o in male che l’ha portata sul palco del festival l’ha raggiunta proprio perché la sua figura aderisce a certi schemi, risponde ad altri. Sa le regole del gioco, insomma, e fossero anche solo quelle della moda e della comunicazione, le rispetta anche quando vorrebbe sovvertirle. 

Le 3 canzoni di Sanremo utili ai fini di un’edificante vita sentimentale

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità, con una serie di riferimenti alla cultura popolare italiana e alle sue implicazioni sociali, una roba alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust , pronunciando solo ed esclusivamente una frase e cioè: “trottolino amoroso dududù dadadà” 

 

Posizione n.3 –  Fausto Leali e Anna Oxa, Ti lascerò, anno 1989 

“Ti lascerò” condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dagli 8 ai 15 mesi se va tutto bene. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia a cui vi accompagnate ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Posizione n.2 – Mietta, Canzoni, anno di grazia 1989 pure lei 

Questa è una specie di misura di emergenza se non avete applicato la regola di cui sopra e nonostante le complicazioni sentimentali subdorate siete rimasti lì fermi a mordervi l’interno della guancia per non urlare mentre il tizio/la tizia a cui (forse, non sa, non risponde) vi accompagnavate fa finta di niente (tratto distintivo degli psicopatici). “Canzoni” è, in pratica, una sorta di mantra che andrebbe ripetuto davanti allo specchio prima di vedere lui/lei e mandarlo a quel paese dicendo: “taratatatatà”Molto spazio è lasciato anche all’autocommiserazione, quindi non preoccupatevi e ascoltate la cara Daniela Miglietta, molto credibile in qualità di rappresentante della trentenne che non si è ancora liberata del nomignolo adolescenziale e che siccome non ha capito ancora bene cosa vuole dalla vita nell’attesa concentra tutti i suoi sforzi nel chiedersi se è qui per piangere, ridere o farsi una foto (per poi dire di meeee, tra qualche tempo di meee).

Posizione n.1 – Amedeo Minghi e Mietta (di nuovo), Vattene Amore, anno 1990

Partiamo dalla coppia, formata dal maestro Minghi assurdamente somigliante al tizio di Ladyhawke e Mietta, decisamente più caruccia dell’anno prima, sul genere bellezza del sud costretta dalla moda e da un parrucchiere dal gusto opinabile ad avere due spalle da giocatore di rugby e la testa più ingellata di Fiorello ai tempi d’oro del Karaoke. Nonostante lui sembri un’aquila rapace e lei la copia a stampante a getto di Monica Bellucci prima di farsi le sopracciglia, la cosa funziona. E questa già è una grande cosa quando si parla di sentimenti, amore, vattene, resta, torna qui, non intendevo, non hai capito, ho capito tutto, capisco e da capo. Non siamo ai livelli scandalosamente maturi del “Ti lascerò“ di Anna Oxa e Fausto Leali, canzone alla quale si potrebbe praticamente rispondere con un “bene, se smetti anche di comportarti da stronzo siamo apposto” e nemmeno a quelli da emotivi anonimi di “Non amarmi” con tutto quel discutere, per mesi, del se Aleandro ponesse come conditio del suo non sentimento il vivere a Londra o all’ombra.

“Vattene amore”, pur inserendosi nella schiera delle canzoni sull’impraticabilità tecnica della cosa amorosa tra uomo e donna, non è una palla stratosferica fine a sé stessa che annuncia il perdurare dello stato amoroso al punto di lasciare l’altro per permettergli di fare le sue stronzate senza sensi di colpa né tantomeno pone l’innamoramento tra due esseri come abilitazione al volo mentre gli altri sono fermi, sola in questo cielo non lasciami. Il duo Minghi-Mietta, si prende poco più di 4 minuti per dire chiaramente che non sa cosa cazzo fare per risolvere la cosa.  Applausi.  

Il mirabile esempio è fornito sin nell’attacco del pezzo: quel “Vattene amore, che siamo ancora in tempo, credi di no? Spensierato, sei contento!” assomiglia molto al nostro “Tu tieni la capa a fare bene e qua stavamo scarsi” e lo sguardo di Mietta lo conferma. La paranoia andante del “perderemo il sonno, credi di no? I treni e qualche ombrello, pure il giornale leggeremo male” è più esaustiva di qualsiasi domanda sui forum di Alfemminile.it. Il fatto è che i due, tutti e due, non uno di più e l’altro di meno, esplicitano benissimo le complicanze di questa cosa chiamata relazione reciproca: un articolo di Repubblica del giugno 1990 ci conferma che la coppia aveva qualche difficoltà anche nella realtà fuori dalla canzone e la discussione pare sia andata avanti fino al 2008 circa.

Non gli volete bene solo per questa cosa di fornirsi il copione a vicenda? A parte il fatto che tutti quei maaaaaaaaaai e quei nooooooooi possono ricordarvi, alternativamente, Kate Bush in Wuthering Heights o vostra mamma dal balcone, sapete che leggere il nome dell’amato su un cartellone che fa della pubblicità sulla strada per me è un fatto riconosciuto dai linguisti con il nome di “preattivazione di un comando”? Il fatto che ci sia una canzone su tutto ciò mi fa sentire meno sola, per dire. Bisognerebbe poi dare il giusto spazio al “vattene”: la triplice possibilità di interpretazione  – ovvero  il vattene finto minaccioso scherzoso, il vattene vieni qua e il vattene vattene – dovrebbe fornirvi materiale abbastanza per preferire sempre una conversazione diretta con il vostro amato in luogo di sms, whataspp, email, messanger e via dicendo.

Vattene amore”, insomma, è una canzone bellissima ed esplicita anche un grande drammone sottinteso. Cos’è meglio sembrare, quando avete il cuore a pezzi?