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La vita, ad un “che male potrà mai farmi un cioccolatino” alla volta

L’ultima volta che mi hanno fatto la calza della Befana  ed io ne sono stata davvero sorpresa c’erano ancora i ciocorì e pure i biancorì (e tra loro, almeno secondo la pubblicità, c’era una relazione amorosa). Se non mi sbaglio, avevamo anche qualche rimanenza di Urrà e guai a non averne mai provato uno, li vendeva tutti Salvatore il tabaccaro.

Salvatore il tabaccaro era appena subentrato al padre, un tizio secco e lungo che teneva il fumo attaccato alla camicia, pareva sul serio una Nazionale. Sono nata, infatti, in un’epoca in cui, oltre alla puteca, dai genitori si ereditava anche l’apposizione vicino al nome e Salvatore era dunque, esattamente come suo padre, il tabaccaro prima ancora di esserlo davvero. Ora, se non sbaglio, insegna Educazione Artistica e a ben vedere già allora teneva la sciarpetella ocra, i capelli lunghi e fumava le camel, nel negozio stava sempre il tornio e qualche opera in cretaa che assomigliava invariabilmente ad una qualche divinità africana anche se, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere un tributo ad Adriano Celentano

I chicchirichì e le crostatine del mulino bianco, il twix che si chiamava raider e il duplo che era una tavoletta si potevano trovare, invece, il sabato al mercato del borgo e precisamente alla puteca (che in realtà era un camioncino) del nonno di Giovanni, detto per brevità Giuann. Povero Giuann, teneva sei anni  come me e il destino già segnato: era Giuann o’ saracaro non solo perché essendo il primo maschio della stirpe ereditava dal nonno l’apposizione (Luciella ‘a saracara non suonava così bene) ma anche perché la saraca, nel dialetto del mio paese, non è tanto il sarago quanto le macchie che è possibile farsi nel rivenderlo.

E Giuann, la mattina, prima di entrare a scuola dalle suore, era portato al mercato a salutare il parentado, ergo, si riempiva il grembiule di sarache (o macchie d’olio, se vi suona meglio). Anche io dovevo passare per il mercato per andare a scuola, ma preferivo il camioncino dei latticini e il tizio che lo gestiva: salivo le scalette di lamiera bagnate di siero, dicevo buongiorno e lui mi regalava una mozzarella o un pezzo di scamorza ed ecco fatta la colazione. Ricordo chiaramente il momento in cui sono salita sulle scalette e non ci ho trovato lui ma il figlio e il figlio non era propriamente gentile oppure ero io diventata troppo grande per essere guardata con la tenerezza riservata agli infanti. O avevano capito che mi stavo facendo una panza di mozzarelle, anche. 

L’estathé stava solo al limone con buona pace mia e quando si faceva la spesa non si doveva specificare estathè al limone semplice non altri gusti non deteinato non con fruttosio. L’estathè, inoltre, si comprava solo da Antonio il lattaro. Antonio il lattaro era pure simpatico anche se assomigliava ad un tizio porco che stava nei fumetti di Sprayliz (un’infanzia turbata da Luca Enoch, I know) e quando andavo a fare la spesa a credito non protestava. Antonio il lattaro è stato anche una componente essenziale nella mia vita intellettuale perché le prime letture pubbliche della mia vita le ho fatte davanti al suo bancone degli affettati, snocciolando la lista della spesa.

Ad un certo punto, più o meno al punto in cui a scuola insegnano le equivalenze, sono andata in confusione: forse avevo capito che era poco chic chiedere “cento grammi di mortadella” oppure mi attraeva il fatto che potessi intendere una cosa dicendola in dieci modi diversi e così avevo preso a chiedere “un etto”, “dieci decagrammi” “mille decigrammi” sempre di mortadella. Antonio il lattaro però stava a sentire, magari intanto iastumava tutti i santi a fila, ma non fiatava proprio. La moglie, la figlia e il figlio invece no, tenevano tutti la faccia da Sgorbions (sì, questo è un post in cui è chiaro che sono nata negli anni Ottanta), e quando io mi presentavo a leggere facevano battute ironiche del tipo: “oh, già so’ l’una, mo’ accumenza il telegiornale”, sti stronzi, poi dice che cresci pensando che le tue parole non interessino a nessuno o che non possano fare la differenza. In ogni caso, quando gli è andato a fuoco il negozio sono stata molto felice e non era comunque abbastanza rispetto al danno enorme arrecato alla mia autostima. E’ colpa loro se Marcello Baraghini alle mie prime presentazioni doveva mettermi una mano sulla spalla e dirmi di leggere più piano, con calma.

Comunque, la questione posta da questo scritto è: oggi io non ho avuto la calza! E se proprio voglio un duplo devo cercarlo in quella che ho fatto io ad un’altra persona (fortunatamente domiciliata nel mio stesso monolocale)!  

C’è del tremendo in tutto questo! Significa che:

  •  i dolci me li posso comprare da sola
  • se voglio continuare a vivermi la vita ad un “che male potrà mai farmi un cioccolatino” alla volta è una mia responsabilità
  • e, infine, significa anche che, ormai è chiaro: la cosa brutta delle feste è svegliarsi, avere 32 anni e non 6 e scoprire anche che siamo condannati ad essere gli sfigati che no, non hanno mai provato Urrà (o che non se lo ricordano nemmeno più).

urrà