Taglavoro

Ma dico io – Poesia per l’otto marzo

A cosa servono flash mob
telefoni amici
leggi contro o pro
case di accoglienza
gruppi di auto e mutuo aiuto
pubblicità progresso
pagine di giornali
se ho aperto il balcone stamattina e c’erano quattro persone affacciate
tre erano donne e stendevano panni e sventolavano tappeti
e battevano cuscini
al sole che ha deciso di uscire mezz’ora fa
uno era un ragazzo
sulla maglietta aveva disegnato un fiore a ricordo di una moda oggi passata
e solo il suo lo puoi chiamare lavoro
senza far partire una discussione antropologica?


Stay hungry, stay choosy

Elsa, non mi sorprendi.
Elsa, dici le stesse cose di mia nonna, solo che lei è mia nonna, tu un ministro.
Elsa, non sono mai stata troppo choosy.
E per questo motivo mi son fatta:

– due anni in un quotidiano senza esser mai pagata, perché, per l’appunto, non era il caso di far la schizzinosa;


– due anni in una p.a. dello Stato che tu governi, il primo anno gratis, perchè era l’anno in cui si portava lo stage, il secondo anno a 280 euro mensili, senza manco una scrivania mi
a, e non era il 1800 ma il 2006;


– due estati nei supermercati, e posso oggi dirti tutto sulle modalità di conservazione della mozzarella e su come abitualmente si rimuovono le date di scadenza dai formaggi, ma se credi che un lavoro non intellettuale mi abbia dato qualche tranquillità in più del lavoro per cui nel frattempo studiavo, stai fresca, oltre che hungry.

Elsa, do you know what I mean,
quando vai dal padrone a fine mese e quello ti dice che 500 euro esentasse possono bastare per l’estate dei tuoi vent’anni? Così.

Elsa, poi ho deciso di andarmene dal mio paese che se è passato alla storia per Cristo che s’è fermato, un motivo deve pur esserci.
Elsa, ho scelto Napoli, e a te posso dirlo: era perché i soldi non erano assai. Sempre pragmatica sono stata, sempre accomodante.
Elsa, a Napoli ho fatto la collaboratrice in un giornale che poi ha chiuso lasciando in mezzo alla strada 120 persone, 120 italiani per niente choosy.
Poi ho lavorato per una tv, prende fondi statali quella tv. Me ne sono scappata dopo 7 mesi: non è che non capivano il mio non esser choosy, è che non capivano manco che avevo bisogno di uno stipendio.
Elsa, una volta sono stata anche ricevuta da Napolitano che m’ha detto: “Essere precari non vuol dire che non si può produrre”. Certo che produco, hai voglia, sennò come campavo fino ad oggi?
Elsa, devo forse pensare che l’invito a non esser troppo choosy è lo stesso, ma declinato all’inglese, di quello fatto anni fa da un Presidente del Consiglio, quando ha detto che uscire con un uomo ricco era il modo migliore per uscire dalla precarietà?
Purtroppo sono poco schizzinosa anche sul fronte sentimentale, peccato.
Elsa, il lavoro che ho fatto nell’ultimo anno e mezzo, 7 giorni su 7, 6 giorni di ferie 6, sta per finire.
Elsa, ho 29 anni.
Elsa, quando mi troverò a vivere con 600 euro mensili portate dall’altro lavoro che orgogliosamente faccio, che dici, potrò esser contenta di me stessa e mangiare muschio e licheni scegliendo di non esser choosy manco sulla cucina?
Elsa, ho passato la vita ad esser poco schizzinosa e non m’ha portato a niente.
A niente, Elsa, se non a non sopportare più le stronzate.
Almeno alle parole, sai com’è, ci tengo.
Sono molto choosy, su quelle. E’ il mio mestiere, scusami.
L’ho detto anche a mia nonna.

Mai Dai

Mi sono accorta d’esser diventata grande il giorno in cui ho smesso di desiderare il concerto del Primo Maggio. Non che l’abbia mai desiderato fortemente, eh, ma nel posto dove sono nata cresciuta pasciuta c’è sempre stato questo alone mistico intorno a chi, nel fatidico giorno, saliva su un treno per Roma. Il motivo credo abbia poco a che fare con la manifestazione di piazza San Giovanni e sia più strettamente legato al fatto che chiunque decida di partire dalla stazione del mio paese è un santo.

Quelli che tornavano, poi. La faccia distrutta da viveur e il discretissimo odore di fumo  sprigionato a mo’ di nuvoletta a ogni pié sospinto: ciò giustificava anche l’alone. Raccontavano storie varie di postegge e baci e accoppiamenti e slinguazzate perché dal primo maggio nascevano gli amori dell’estate, gli equivoci che tenevano banco per gli inciuci fino a settembre, cose del tipo “Luigi ha baciato Luisa pensando fosse Marta che è la sorella della sua ex Maria e se lo sa Giampiero li uccide”.

Gli amici di certi amici, poi, l’alone ce l’avevano da sempre. Stazionavano davanti a quello che all’epoca era l’unico bar con atmosfere semiquasirock del paese, non stavano seduti ai tavolini come si usa di solito, no. Non stavano nemmeno seduti al bancone, come pure mi pare si faccia normalmente. Loro stavano a terra, sui gradoni del locale, mollemente adagiati in gruppi di ottantacinque sull’unica provata panchina del posto, avevano una confidenza di luoghi e spazi, la strada era casa loro e in quest’ottica doveva sembrargli logico ostruire, di fatto, il passaggio a qualunque essere vivente. Nell’ultima settimana di aprile il traffico si faceva più intenso: il gruppetto si rimpolpava di visi e facce e bottiglie di birra tintinnanti e sigarette e canne.

Io avevo 15 anni, un jolly invicta, le felpe, le scarpette da ginnastica e il principio di curiosità classico per la varia umanità che si accalcava in poco più di 100 metri: c’erano i trentenni con la passione per il cinema francese e la fotografia b/n, l’attaccatura dei capelli che cominciava a farsi più rada; c’erano le ventenni fighissime tirate a lucido in pantaloni di pelle, il loro amore per la housemusic, Angels of Love. C’erano le adolescenti che come me, prima di me, avevano avuto faccia di cazzo abbastanza per andare a vedere questo mondo altro che si apriva fuori Porta Santa Caterina e prendeva l’autostrada.  Il mio ingresso nella società che include a fasi alterne non fu niente di che: l’età non mi permetteva che uscite pomeridiane durante le quali uno dei trentenni di cui sopra cercò di convincermi che:

  1. i cani mangiano la cioccolata;
  2. Werther non si era mai suicidato;
  3. Innuendo dei Queen non era poi gran cosa.

Capirete il mio odio.

Alla luce del palco montato nel centro di Roma, ho visto spuntare carte da 100mila per fare i biglietti del treno e balconcini di case fuorisede da cui forse possiamo vedere/sentire e genitori compiacenti che ci accompagnano con la Station Wagon e Marta e pure Cristina belle pronte a fare carte e pezzi di fumo grandi quanto tavolette di ritter sport da mettere nei caziettielli e nelle mutande così non ce li trova nessuno. Una delle adolescenti si accodò ad uno dei trentenni in partenza: un pastore tedesco amico del commissario Rex gli zompò addosso alla stazione di Napoli per tutta la roba che tenevano addosso. Suo padre si disse stupefatto. Mai quanto lei e il trentenne, suppongo.

L’anno dopo non so quale associazione decise che tutti noi gggiovani della cittadina avevamo diritto al concerto del Primo Maggio. Indi per cui nella piazza principale del paese fu sistemato un mega super schermo puntato su raitre. Il danno fu che per giorni, settimane, ogni qual volta ci si incontrava, alla domanda “Cos’hai fatto ultimamente?” bisognava rispondeva con aria vissuta: “Sai, sono stato a vedere il concertone” quando, invece, la frase corretta sarebbe stata “Sono stato a vedere il concertone in piazza della Repubblica”.

Così, forse per la mia incapacità di tollerare stronzate troppo a lungo, ho iniziato a dire, con un certo orgoglio, che no, non solo io non c’ero mai stata, ma non desideravo nemmeno andarci. Lo dichiaravo con aria annoiata, pronta a infervorarmi al momento giusto, e sentendomi, per la prima volta, ufficialmente, un outsider.  Le mie motivazioni non avevano il successo sperato: spiegare quanto mi dava ai nervi l’associazione di bandiere rosse + bandiere della pace + rock + dreadlocks + torso nudo + ragazze sulle spalle + postegge + speranze di accoppiamento + ombelico di fuori + folla oceanica uso mandria di bufali + più canne + più bottigliette di acqua e panini + presentatori + viaggio in treno dalla stazione del mio paese + ritorno + soldi che non ci stanno, non convinceva nessuno, e certe volte stancava anche me perchè erano cose che prese singolarmente, una per una, magari mi stavano anche bene.  Dopotutto ero sempre una quindicenne bionda che non sapeva dire bene che nel concerto del Primo Maggio, o forse nelle persone che vedeva parteciparvi, non riusciva a trovare che poche, pochissime corrispondenze con il tema del lavoro, della democrazia, delle prospettive di progresso sociale.

Il concertone, purtroppo, per come me lo raccontavano mi pareva una gita di quelle che si fanno per il ponte, oppure a scuola nello stesso periodo. E di queste uscite in pullman con tutta la classe, sarà una pecca ma io non ricordo il programma di viaggio di studio ma gli scherzi, l’ilarità, lo spacciare vodka al cocco per acqua e darlo da bere alla prima malcapitata, l’aspettare tale ragazzo all’uscita di tale albergo, fumando tale sigaretta con tale musica di sottofondo, come hai detto che si chiamava quella canzone?

Oggi il gruppo si è sfilacciato: alla birra e al fumo collettivi si sono aggiunte inclinazioni individualistiche come la bellezza della scrittura e l’utilizzo macchine fotografiche non digitali. Susan Sontag ci vedrebbe un bel po’ di implicazioni psicoanalitiche, io penso semplicemente che quando vivi nel sud del sud devi trovarti un minimo di occupazione se non vuoi fare la fine di Jack Torrance in Shining, quindi ben venga. Certo, il casino che sta sotto casa mia, non vi dico . In questo contesto, suppongo che il concertone del Primo Maggio rappresenti ancora una buona occupazione.