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Se sei in vacanza goditela. Perché tornerai.

Vacanze come vuoto da riempire.

Di sveglie al mattino presto che non suonano, basta la luce che entra dalla finestra sul letto, bastano le biciclette (quelle elettriche fanno il loro modesto rumore, tipo auto da corsa)
Di colazioni lente, una macchinetta del caffè che continua a sporcare tutto, anche lei fuori dai ranghi, anche lei in ferie d’agosto, puoi stringerla quanto vuoi (riusciremo a capirci solo al penultimo giorno di vacanza, e comunque non mi fiderò di lei per l’ultimo caffé prima della partenza, sia mai che sporchi tutto di nuovo)
Di mare che decidi dall’alto del belvedere quale sarà il tuo posto, da un lato o dall’altro, oltre gli scogli o prima, in una geografia della tranquillità che durerà due ore appena, prima che qualcuno decida di stendere il suo telo proprio accanto a te (e la sfida sarà non chiedere il perché, diamine, con una spiaggia intera).
Di acqua fredda e pulita che tanto vale tuffarsi subito, stare lì sulla riva ad acclimatarti è un fatto di vergogna e di pescetti che ti nuotano tra i piedi facendoti il solletico.
Di tuffi semplici, di barche troppo vicine, di materassini gonfiabili e ombrelloni gialli di carta che il vento non riesce a portare via (ora abbiamo una specie di diplomino, “piazzatori di ombrelloni che non si muovono e non volano contro la roccia ad ogni folata”).
Di Murakami che è tornato ad essere il tuo migliore amico, quello con cui parli di niente e sembra importantissimo ogni volta.
Di giornali di casa tua che adesso sembra lontanissima, le notizie sono monumenti di cui conoscevi tutti gli angoli ma solo ora le guardi per bene e sai già tutti gli spigoli in cui altri ancora si impigliano, per forza o per piacere.
Di borse frigo, di panini e salumieri che hanno ancora la cortesia di far passare i bambini dietro il bancone per regalargli un pezzo di mozzarella o una fetta di prosciutto, così non si guastano l’appetito con una merendina (una cosa così non la vedevo da quando l’infante che scavalca la fila e va a prendersi un pezzetto di qualcosa non ero io).
Di fruttivendoli dal nome simpatico – Silverio è il mio – che hanno peperoncini fortissimi, origano di produzione propria, meloni sempre buoni, ottimo vino bianco fatto in casa e se chiedi un po’ di basilico ne puoi ricevere una busta intera, buona per una caprese ma anche per far profumare tutta casa.
Di limoni dolci al punto che mangiarsene uno è un piacere.
Di pranzi fatti con circospezione perché sennò arrivano le formiche (credo avessero carpito il nostro orario, sennò non si spiega).
Di raccolte differenziate fatte con piglio, dai, è semplice (per poi tornare a casa e chiedere: perché non la facciamo anche qui? e sentirsi rispondere: eh, in quali cassonetti?).
Di sonni pomeridiani al fresco sotto l’occhio vigile di Topolino e Paperino e Pippo, disegnati sulla parete della casa che hai preso in fitto che se ad altri farebbe piacere restare adulti anche a mare, a te no, a noi no: noi siamo bambini, davanti al mare.
Di lenzuola fresche, di vento e di pelle che tira un po’ per il sale ma che ti importa? C’è una bottiglia riempita d’acqua e messa al sole a riscaldare, c’è una doccia più consona da fare ogni volta che vuoi.
Di radio accese sulle canzoni che non avresti mai ascoltato, anzi, tollerato.
Ora suonano e capisci che il problema non è la musica, non è il testo ma il ritornello. Come si fa a “vivere a colori” se Alessandra Amoroso dice che non c’è un segreto per farlo? Lo si fa e basta, mandando “all’aria tutti i nostri piani, riavviciniamo i sogni più lontani“. Una sua amica di compilation estiva le fa da coro greco, e non sai come si chiama ma canta: “la vita che cos’è? un abbraccio al sole” e c’ha ragione, vorrei dire, anche quando canta “non saremo mai distanti e non cercheremo mai di tradire i nostri sensi” che poi in realtà e proprio quello che facciamo tutti.
Le due, l’ora della mancanza: ha a che fare con la fame? No, non credo, perché non ne ho.
Credo sia più una questione di spazi, di vuoti e pieni che con la luce vedi meglio, così chiari, così tranquilli, sembra semplice dire la verità davanti a loro.
I “dove sei ” che si rincorrono su schermi dove il sole batte e non vedi più quello che scrivi ma i tuoi occhi nel farlo: hai ancora la fiducia necessaria per fare domande, per leggere le risposte alzandoti a cercare ombra e campo.
Sono a Lisbona.
Sono in Salento.
Sono su una spiaggia qualunque come te.
Sono a casa.
Mi sto riempiendo gli occhi di azzurro, come scorta.
Ci sono 40 gradi.
Piove.
Sotto l’ombrellone una ragazza piange che le si è sciolto il trucco e nessuno le chiede perché, a chi doveva sembrar più bella di quanto già è. Aline Ohanesian rincorre Dorit Rabinyan sulle pagine de La Lettura, scritture così belle da farti piangere un po’ ma puoi dire: è il mare, è il vento e comunque, dove mangiamo stasera, cosa?
Hai un vestito che a casa non metteresti mai, i capelli e i piedi liberi e questo basta, ma te ne accorgi solo dopo un po’.
Prima ci sono i sentieri dove ti avventuri solo per il gusto di scoprire cosa c’è oltre, “visto che hai il tempo”, “visto che non hai altro da fare”, “visto che si può”.

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I tramonti, quando arrivano, lo fanno di sorpresa prendendoti alle spalle: ma poi dov’è ancora giorno, dove è già notte, con la luna bianca e una stella, una sola, lo capisci subito, è così chiaro.
Sai distinguere le costellazioni, da qui, sapere dove cadranno le perseidi e puoi vederne una e poi un’altra, ma solo quando non stai lì a cercarle, stelle cadenti come la maggior parte delle cose.
Ragazzini dall’età poco definibile – dieci o quindici?, otto o dodici? – saltano davanti a te cantando: “non mi fumo canne, sono anche astemio” e ti verrebbe da chiedere: “allora che giustificazione avete, cari?”, ma è già tardi e fa già troppo fresco.
Sei sul letto di una casa che tra poco lascerai, una casa strana che ti ha fatto simpatia da subito, ridere da subito, tutta colorata, come da insegnamenti dell’arte greca, come scriveva Ghiannis Ritsos: “sempre il blu di fianco al quotidiano”.
Sorridi allo specchio che per 15 giorni ti ha rimandato una faccia che conosci, la tua, ma mano a mano sempre più calma, sempre più rossa: ora ti manda immagini di pace che non credevi mentre il vento fa muovere i lampadari sulla tua testa, leggeri che seppure cadessero ci sarebbe da ridere più che da preoccuparsi.
I Tiromancino che avresti cambiato stazione subito fino all’altro ieri adesso cantano i “Piccoli miracoli” di cui sei testimone e “scegliere l’amore che ti fa sorridere” sembra ovvio e semplice.
Con le valigie svuotate e tornate piene (-“Cosa c’hai messo qui dentro?” -“La mia rabbia, come diceva Lino Banfi”), tra poco tornerai.
Per questo, se sei in vacanza, goditela.

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Compiti per le vacanze

(io adoravo i compiti per le vacanze. li finivo nei primi tre giorni di nullafacenza. tutti, tranne quelli di matematica)

  • Leggere ancora una volta Scrivere zen di Natalie Goldberg e ricordare il titolo originale, molto più bello, Writing down the bones;
  • Mettere in valigia più di un libro (i miei sono: La brava terroristaRacconti londinesi di Doris Lessing e voglio prendere anche La femmina nuda di Elena Stancanelli);
  • Vedere almeno un’alba al mare;
  • Fare il bagno al tramonto senza la fretta di tornare a riva o a casa;
  • Dichiarare il sabato mattina patrimonio dell’umanità;
  • Prendere sane distanze da tutto ciò che si illumina, squilla o vibra;
  • Continuare a lavorare con gli occhi;
  • Non consumarsi le dita per gli altri;
  • Sapere apprezzare gli spazi bianchi;
  • Non scrivere per farsi amare;
  • Arrampicarsi su un sentiero che non si sa dove porta;
  • Scoprire un bel film, possibilmente in un cinema all’aperto;
  • Avere una maglietta di filo sulle spalle;
  • Nuotare tanto;
  • Scrivere ogni giorno su un quadernetto come stai, cosa sogni, cosa vuoi;
  • Correre ridendo;
  • Dimenticarsi la fretta;
  • Comprare una tela e un paio di tubetti di acrilici maimeri: anche se non dipingerai niente di particolare, solo per l’odore e il ricordo;
  • Sentire il profumo dei limoni, comprarne un po’ per fare il limoncello;
  • Fare la spesa in compagnia perché è più divertente;
  • Visitare un posto nuovo mai visto prima;
  • Parlare con chi non conosci;
  • Aspettare con fiducia di vedere una stella cadente e poi un’altra ancora;
  • Esprimere i desideri che hai;
  • Cucinare un piatto nuovo (personalmente la mia sfida sarà il pane con le noci e le marmellate);
  • Apparecchiare fuori e cenare lì;
  • Non far mai mancare il Biancolella in frigo;
  • Cercare sul giornale una bella notizia e complimentarsi con chi l’ha scritta;
  • Ascoltare buona musica;
  • Re-imparare ad andare in bicicletta;
  • Salutare con affetto ciò che non puoi cambiare;
  • Ribellarsi alla mediocrità dei sogni che si infrangono;
  • Se le cose si sfogliano come una cipolla facendoti un po’ piangere, sapere che servono anche così anzi è meglio;
  • Cantare le canzoni che sanno mettere pace tra te e il mondo (una delle mie è questa);
  • Abbracciare qualcuno che ricambi stringendo più forte;
  • Avere dei fiori sul tavolo;
  • Raccogliere sassi;
  • Spedire cartoline, anche se dovessi spedirle a te stesso;
  • Sottolineare le parole che non vuoi dimenticare;
  • Essere gentile con te stesso;
  • Ricordare che stai facendo il meglio che puoi;
  • Disegnare senza paura di sbagliare;
  • Fare domande solo a chi può rispondere guardandoti negli occhi;
  • Sognare insieme a chi ami;
  • Non affaticarti per essere felice;
  • Respirare;

nota personale e saluti estivi: 

Luglio è un mese faticoso. Tutti gli oroscopi che ho letto mi hanno detto che non era il caso. La maggior parte degli astrologi è del mio stesso segno zodiacale: ho avuto la conferma di essere nata sotto il segno dell’Acquario quando ho letto le loro previsioni. Prima, alle volte, pensavo di essermi sbagliata; adesso pare che il nostro sguardo si sia incrociato sopra quello degli altri. Lo sai, eh? – si dicono le nostre pupille –  Non me ne parlare, guarda. Considerate le ultime settimane, tonde e pesanti come il mondo sulle spalle di Atlante, potrei dire di me che sono in perfetta forma fisica e che quella che vedete non è scoliosi ma l’astuccio delle mie ali*.

E dunque, passo direttamente ad agosto: al paese mio dicono che “è capa ‘e ‘vierno”, è la testa dell’inverno, e io l’ho sempre trovata bella come frase: al di là di quello che ci leggo oggi, mi piace ricordarmi di quando significava solo che se andavo a San Donato a cercare di vedere le stelle cadenti dovevo portarmi il maglioncino di filo e sarebbe bastato a proteggermi dal vento e dalla scomodità di stare sdraiata col naso all’insù sul cofano di una fiat uno verde militare.

Da qualche anno  – non so se 4 o 5  o addirittura 6 – c’è sempre la stessa canzone a farmi compagnia. Questa:

In realtà è nel mio lettore sempre, ma in questi giorni la faccio suonare molto: come buon auspicio, esercizio concreto di memoria, o solo perché mi piace. La prima volta che l’ho ascoltata – era il 2011, e adesso abbiamo una certezza sugli anni passati da – ci ho scritto su, di botto, una dozzina di pagine di un romanzo che è uscito, poi, l’anno dopo. Ma ho ancora dubbi sulle parole di questa canzone. Il titolo, ad esempio: August is for city lovers. Significa che Agosto è il mese giusto per chi ama la città che adesso è vuota e piena di sole e sembra stare lì solo per loro, un’infinita domenica pomeriggio senza nessuno da vedere, nessuno da chiamare? Oppure la traduzione più esatta è che questi giorni caldi sono fatti apposta per chi si ama, in questa Napoli che brucia o altrove? Qui ci sarebbero, allora, molte persiane abbassate di pomeriggio, quando la luce è più forte.

Le parole, poi: io e R. le abbiamo cercate per tanto tempo, credo lei sia arrivata addirittura a scrivere agli autori mentre io cercavo di desumere dalla pronuncia per farmene almeno un’idea, ma non le abbiamo mai trovate. Mi piace pensare che il verso finale sia “time don’t talk for us” o qualcosa del genere; che ad un certo punto dica “let’s take what is left to give“; sono sicura che il cantante chieda “don’t you feel this pouring rain” o “please stay for just one more night”. Un giorno più dazed and confused di altri, io e R. arrivammo a proporci una versione di massima che potevamo cantare io e lei, tanto il pezzo è semisconosciuto quindi non avremmo dovuto fare i conti con nessun fan precisino. Da allora l’unica preoccupazione di queste due tizie che si ostinano a chiamarsi amiche e a crederci tanto, è stata non spaccarsi i denti con il collo della bottiglia usato come microfono come quella volta che cantavano i REM in un bar ed erano tanto tanto felici e propositive. 

Infine c’è una volta, una delle tante volte per cui ho parole che potrei anche non avere, camminavo su via Foria. Avevo lasciato una persona all’angolo, se non ricordo male, o davanti alla metro, non lo so più. Presi dalla borsa le mie cuffiette e mi lasciai canticchiarla da sola con le parole che mi ero inventata. Poco dopo ne inventai altre, le scrissi in un’email e la inviai.

Adesso, invece: ho finito il romanzo nuovo e ha un posto nella valigia che sto riempiendo pezzo pezzo. Troverete sicuro qualche mio articolo sul Mattino. E ci vediamo tra un po’ di settimane come si ritrovavano i compagni a scuola a settembre: con la faccia abbronzata, i capelli un po’ più lunghi e i libri nuovi ancora tutti da comprare.

*questa metafora non è mia, è di Erri de Luca in Montedidio 
**in copertina “The Stand” di Claire Elan

 

A.A.A. Cercasi libraio, editore, scrittore, lettore, persona
che pensi “stiamo sbagliando qualcosa” e si adoperi per rimediare.

Trovo banali le discussioni sulle librerie che chiudono, come quelle sulle librerie che aprono. Il fatto è questo: se mi chiude un negozio di vestiti, non è che esco nuda. Se mi chiude una libreria, non è che non leggo più. Il mio discorso potrà sembrarvi irrispettoso, ma fatevelo dire da una che ha visto, negli ultimi due anni:

  •  chiudere 4 posti che vendono libri (grandi e piccoli, di catena e non, con supersconti per la chiusura o chiuse di botto senza sconti per nessuno); 
  •  un paio di convegni su quant’è bello fare i librai, ma perché non facciamo tutti i librai;
  •  un botto di scrittori di questa città, me compresa, con libri nuovi in uscita;
  •  un botto di scrittori di questa città, me compresa, che poi il libro nelle librerie di questa città non c’è;
  •  un botto di lettori di questa città, me compresa, che hanno difficoltà a trovare un buon libro da leggere;
  •  un botto di gente che le librerie aprono o chiudono, che me ne importa. 

Allora mi chiedo, e vi chiedo: è normale o è giusto, preoccuparsi per la chiusura di una libreria solo quando la si chiude con la saracinesca? È normale o è giusto, correre a comprare il libro di cui parlano tutti e poi indignarsi se Gian Arturo Ferrari a Francoforte dice, più o meno, ah, guardate, c’è stata una grande moria delle vacche, come voi ben sapete? È normale o è giusto, pensare che una libreria non è solo un posto dove si vendono libri, ma anche un luogo dove se ci vado io domani mattina, e chiedo un consiglio, dico, guarda, mi piacciono questi autori e questi no, adoro Faulkner ma non sopporto i suoi imitatori, mi rispondano? Ecco, di cose così io mi preoccupo, e vi giuro, non voglio che le librerie chiudano, e non voglio che alle fiere dell’editoria mi prenda il panico (mi è già successo, e non per la mole di libri che volevo leggere, ma per quelli con cui non volevo avere niente a che fare). Io voglio qualcuno, libraio, editore, scrittore, lettore, persona, che pensi “stiamo sbagliando qualcosa” e si adoperi per rimediare.

Nella fattispecie, tu libreria che chiudi, posto in cui sono stata tante e tante volte, dove ho conosciuto autori che adoravo, tu, libreria, capisco e comprendo e mi dispiaccio, ma potresti, per favore, non farmi il discorso della crisi economica come crisi culturale?
Perché il fatto è che non è vero che se non ho soldi per comprare un libro, allora divento analfabeta (a me succede ogni mese di non avere abbastanza soldi per comprare tutti i libri che vorrei, ma so ancora cos’è la consecutio temporum). 
E non è vero che se abbasso i prezzi di un libro allora ho più gente che lo compra (se il libro è bello ci spendo anche 20 euro, per capirci). 
Non è vero che un presidio di cultura muore solo perché non ha lo spazio fisico in cui avere domicilio (altrimenti non avremmo avuto gloriosi gruppi culturali nati via lettera). 
Non è vero che la cultura letteraria passa per l’acquisto: la cultura passa per l’educazione alla lettura e quella si può sempre fare, e si fa anche stando attenti alle piccole realtà editoriali, ai piccoli gruppi di lettura, ai ragazzi che dei libri non sanno niente, a chi non ha un posto dove mettersi tranquillo e scrivere, a chi non ha un posto dove mettersi tranquillo e leggere, a chi non ti conoscea chi non ha un posto dove dire la sua in materia di libri e non preoccuparsi di avere un’opinione diversa, a chi cerca uno spazio per far qualcosa di nuovo, a chi in questa città ha 30 anni e ci è cresciuta nei posti che negli ultimi mesi han chiuso, e Dio Santo, si sorprende e ci resta male, ma non sa proprio come aiutarti (un paio di idee le avrebbe pure, eh, e sono qui dentro).