Tagnapoli

Vedere il nuovo film di Sofia Coppola è come andare da H&M coi saldi

Ho visto Bling  Ring, il nuovo film di Sofia Coppola: è come andare da H&M coi saldi, più precisamente nel periodo in cui Lana Del Rey faceva da testimonial.

Prologo da conversazione Whatsapp, che se avessi imparato come si fa lo screenshot sul mio cellulare sarebbe un insert fichissimo ed extratestuale, ma no, l’unica cosa che posso fare senza mandare in pappa il touchscreen è inoltrarmi la conversazione via email, cosicché ho la casella piena di conversazioni che nel mentre erano divertentissime e che fuori dal contesto potrebbero essere usate contro di me, replicando una serie di vicende di politica interna.

-Tesoro che mangiamo stasera?
-Minestrone. Freddo in frigo (il punto è dovuto a erronea digitazione della sottoscritta)
-(emoticon del gatto che piange)
-Ceniamo fuori? (emoticon del gatto speranzoso)
-Uè? (emoticon del gatto interrogativo)
-Penso che il minestrone freddo sarà alla base della mia dieta per un po’, ho appena perso un lavoro
-(emoticon del gatto che piange)

-Offro io? (emoticon del gatto innamorato)
-Veramente preferirei andare al cinema, sta il nuovo della Coppola
-È un altro film in cui stanno per scopare ma poi non scopano?
-Non credo sia quello il tema.
-Parla di un gruppo di ragazzini che rubano vestiti etc nelle case della gente ricca
-E tu sei sicura che poi non prendi spunto? 

Alla fine si è deciso di vedere sì il film della Coppola, ma in lingua originale, per concentrarci su uno studio dell’accento di Emma Watson quando dice Yessa! piuttosto che sulle modalità (replicabili) di come si possono fregare occhiali da sole griffati a chi ne possiede più di un paio (che poi: mica ci vuole una laurea. Prendete me: non ho l’ultimo modello di Dior, no, però vista la mia capacità di perdere occhiali, ma anche orecchini, anelli e altre sciocquagliere del genere avrebbero potuto tranquillamente fregarmeli).

Il film

Il film è sostanzialmente la storia di un ragazzino che forse è gay forse no ma gli piace mettersi il rossetto e le scarpe coi tacchi quando la mamma non lo vede. Siccome soffre molto la solitudine e l’incomunicabilità e ha una serie di idee su quanto non piace alla gente fa comunella con il genere piccola arpia esponente femminile dello stesso tipo di adolescenza post Dawson’s Creek, pre Gossip Girl, con uno sguardo a Beverly Hills 90210. Ai due viene in mente una genialata: cercare su google gli impegni di Paris Hilton o di Lindsay Lohan, gli indirizzi di casa loro e incrociare le cose, partendo dal dato di fatto che ogni americano lascia le chiavi sotto lo zerbino. Siccome l’esponente femminile ha un range maggiore di approvazione tra i suoi coetanei (lei può usare rossetti e scarpe coi tacchi senza essere guardata strano) ne parla con le sue amiche e così vanno a rubare tutte assieme condividendo la difficoltà di vivere ed essere donne in un mondo in cui se non hai la tua faccia stampata su un cuscino e il reggiseno che occhieggia dalla camicia in modo sexy ma non disperato non sei nessuno.
Praticamente è come se avessero aperto un catalogo di American Apparel dentro la stanza delle Vergini Suicide.

Mentre rubano vestiti, tappeti, quadri e lucidalabbra, il gruppetto va anche alle feste, carica molte foto su facebook, assume droghe, e ascolta molta musica tipo Showers Of Ink di Loscil.
Poi li acchiappano e una di loro si apre un blog.
Il film è tratto da una storia vera, ma visto ciò che accade in Italia e la quantità di storie vere che sembrano film scritti da tizi sotto acido e con scarso senso della realtà, non credo che il dato possa impressionarci molto.

Qualche tempo fa, scrissi per Il Mattino una storia che era in parte la mia. Ma anche la vostra, tanto che sicuro avreste potuto raccontarla voi. Diciamo che scrissi una storia che ci riguarda, nel senso stretto e letterale del termine: occhi negli occhi, insomma, noi e il nostro riflesso nella una vetrina di un negozio, noi nello specchio illuminato da neon bianchi fissato all’interno di un camerino. Ci sono stata io e ci siete stati voi in quello specchio e in quel vetro, c’è da giurarci, così come c’erano state le quattro ragazzine della piana del Sele che erano al centro del mio articolo perché finirono nella stazione dei Carabinieri di Pontecagnano per aver rubato vestiti per un valore di circa 400 euro.

Il fatto era più o meno questo: un gruppo di minorenni decide di andare a fare shopping, ma siccome per far shopping è necessario aver soldi, e i soldi a diciassette anni latitano, allora un paio di forbici possono andare bene. Non erano le prime ad aver avuto quest’idea, non saranno le ultime, e non è necessario leggere le cronache per accorgersene, basterebbe andare in una strada del centro. Non è un problema del povero Sud o del ricco Nord e non c’entra niente neppure la povertà: la storia che c’è dietro, quella che ci riguarda, è quella di case in cui non manca il pane. Non manca niente, in realtà. Perché il fatto è anche che le ragazzine fermate da una commessa attenta non hanno raccontato di crisi, di disfatte economiche o di una lunga storia di privazioni. Hanno raccontato della noia che le aveva prese un giorno di maggio con la scuola quasi finita e intorno il nulla della provincia. La Coppola non racconta neppure questo.

Cosa racconta il film della Coppola e soprattutto perché

Lei, la donna che ho amato da quando faceva la ginnasta provetta di Elektrobank, anzi, prima ancora, da quando impersonava Mary Corleone nel Padrino parte terza, non racconta dell’America borghese che esce dalla rigidità religiosa ma non è ancora pronta per la libera espressione dei corpi (sebbene il personaggio della mamma di Emma Watson sia una versione new age della mamma de Il giardino delle vergini suicide), non parla assolutamente del non sapere cosa fare della propria vita e come dirlo (sebbene il personaggio della ragazzina Rebecca potesse facilmente assurgere al ruolo di piccola incompresa leggermente più stronza della dolce Charlotte di Lost in Translation), prende sì spunto per quanto riguarda lo sfoggio di vestiti da Marie Antoinette, ma con il dramma che non sono i costumi di Milena Canonero, no, ma per l’appunto vengono dalle riviste di moda del momento. Almeno avessero svaligiato – nella finzione filmica – l’armadio di Lady Gaga, ecco, allora ci saremmo divertiti. Sofia poteva giocare sul registro da commedia, e avrei trovato più comprensibile il messaggio, del tipo, una delle ragazzine ruba il cappello a forma di astice della signorina Stefani, e bum, finisce dal preside, ed ecco il via per parlare dell’impraticabilità non solo economica dei costumi nella vita reale, e poi una lunga riflessione sul fatto che siamo nate e cresciute con vestiti che definivano età e classi di appartenenza attraverso i colori e il taglio, mentre ora l’unica informazione necessaria è la marca (qui una bella canzone dei Jesus and Mary Chain, grazie) e che a meno che non si appartenga al rango delle ciaffone, dovrebbe essere nascosta, non esibita, e invece è sempre più sbandierata anche a livello di falsi (e non penso solo alle bancarelle di via Roma, ma anche alla puntata di Sex and the city in cui Carrie e Samantha finiscono nel bronx alla ricerca di una Gucci pezzotta).

Niente di tutto ciò. Sofia, la mia Sofia, non si capisce cosa cazzo vuole dire:

– che gli adolescenti hanno subito il lavaggio del cervello dalla televisione (Oh Popper, amico dei giorni più lieti, dove sei) ?
– che gli adolescenti stanno troppo su facebook e si fanno venire strane idee (come buona parte della popolazione adulta) ?
– che gli adolescenti sono potenzialmente pazzi (come buona parte della popolazione adulta)?
– che gli adolescenti, oh ma cazzo, l’hai vista quella borsa, stava in una vetrina di via dei Mille!

Andate a vederlo se vi capita, se non avete del minestrone freddo in frigo soprattutto, e poi mettete una X sull’opzione prescelta. Personalmente io sono uscita dal cinema sentendomi come quando H&M mise i saldi nel periodo in cui Lana del Rey faceva da testimonial e io avevo quasi completamente perso la ragione e non sapevo se: prendere un’altra camicetta, prendere un’altra gonna, provare il coordinato reggiseno mutandina, e comunque continuare a salmodiare “Tell me I’m your national anthem”.

Il video che segue, invece, Sofia, è un messaggio per te, sul fatto che va bene, probabilmente volevi replicare il Gus Van Sant di “Da Morire”, ma per dire qualcosa di nuovo e vero e convincente sulla tendenza dei giovani a replicare fuori contesto stili di vestiario e comportamento, e farne un’analisi socio-economica bastano pochissimi minuti, sul serio.


Caro amore che vai a giocare in un’altra squadra

Tua madre assomiglia a Gloriana, ci sono foto mentre fate la grigliata di carne con tutti i parenti fuori al balcone, tieni i capelli lunghi che se fa troppo caldo tiri su in un tuppo, sei devoto a Padre Pio ma sei anche un po’ evangelico, ti sei sposato a vent’anni e poi hai lasciato tua moglie e due bambini per una moracciona del casertano, mammeta e pateto e frateto se mettono semp”o mienz”e fatte tuoje, e te ne vai a giocare al Paris Saint-Germain? Tu nella Sanità dovevi stare, insieme a me.

L’altro giorno davanti alla Caserma Garibaldi, stavano tre bambini con la tua maglia, e io mi sono commossa: sti tre criaturi, l’hai capito che abbuscano se si mettono quella maglia anche per dormire, quando comincerà il campionato? E io, io che mi sono girata una nave da crociera intera e poi ho corrotto il servizio di security per entrare nel ristorante dove stavi pranzando, e ti ho detto solo “no te vayas, por favor”, voglio sapere, dimmi, era meglio che mettevo a frutto la mia conoscenza del francese per mandarti a quel paese, e senza clausole rescissorie?

Amore mio calcistico con la stessa sorte dei miei amori reali che quando se ne vogliono andare di solito gli preparo le valigie, anche in questo caso non mi frega niente passare per la rancorosa di turno, che se te ne vai significa che non hai capito un cazzo, dunque acceleriamo le procedure. Su, che nessuno dei due più perda tempo.
Nessuno dei due più creda di essere compreso, pure se tu sei in campo e io davanti al televisore o seduta nella tribuna dei distinti. Su, che non siamo nello stesso bar, tu a dirmi, sì, ho baciato un’altra ma non come bacio te, e io a cercare di frenare l’impulso di commettere un omicidio: te ne stai andando a giocare in un’altra squadra, come è già successo, come fanno tutti, non sei né il primo né ultimo, e non è un problema di cui possa o voglia occuparmi.

Una squadra di calcio e un giocatore, mi dicono, non sono la stessa cosa. È lo stesso concetto che potremmo applicare ai sentimenti, dove l’amore e un uomo che dice di amarti, beh, lo capisci a dodici anni qual è la differenza. L’uomo può cambiare idea, il giocatore maglia, la squadra e l’amore dovrebbero resistere proprio in virtù della varietà di casi e di persone coinvolte, e allora si comincia a parlare di fede. Con il cazzo.  Io che continuo ad essere convinta che la bontà di Dio non stia nelle parole o nelle idee ma nelle azioni degli uomini, dimmi un poco tu, potrò rivolgermi ad un santo per farmi spiegare o mi basta un commercialista quando non avrò più alcun tuo cross da metà campo, alcun tuo tiro in porta?

Quando mi troverò di nuovo di fronte a quello strano sentimento che dice “mi manchi ma mi fai schifo”, ecco, non è che potrò chiamare un’amica e dirle, “senti, ci facciamo un giro al Bellini che sto un po’ a tre quarti”? Non potrò neppure cercare il parere di un uomo, sai quando chiami il tuo amico maschio per chiedergli una veloce traduzione uomo-donna e quello ti risponde “ma lass”o perdere che è nu povero strunz”, no, non potrò farlo, e non solo perché ci sarebbe da ridire sul “povero”, ma perché molto probabilmente l’amico maschio sta smadonnando pure lui, solo che manco lo può dichiarare apertamente.

E non credere, amore mio calcistico, che fossi attratta dal tuo culo più che dai tuoi assist come potrebbe pensare qualche maligno: i secondi erano più importanti del pur importante primo, perché se la vuoi tutta, io non sono capace di provare sentimenti o attrazione per uno che poi non è capace di darmi fiducia e fare il suo mestiere, e non mollarmi sul più bello. Cioé, io non posso dire “quant’è bello” di uno che poi si fa bestemmiare dietro per 90 minuti consecutivi una volta alla settimana. 

Perdonami allora, Edi, e cerca di capirmi: cominceranno ora con il revival su Maradona o con la storia di Zola, con i nuovi acquisti, con quelli che verranno per non lasciarci, con la nuova stagione, con il ritiro a Dimaro, per non confessare, ammettere, che quando ti abbiamo conosciuto avevi l’apparecchio ai denti e non il borsello di Luis Vuitton e che da te, proprio da te, ci sentiamo traditi come Cribari ad Utrecht. 

Mai leggere Peppe Lanzetta la domenica dopo pranzo

 

Se c’è una cosa che devo smettere di fare
è leggere Peppe Lanzetta la domenica dopo pranzo
che pare che Peppe Lanzetta è stato assettato a tavola assieme a me
che sto sporca di sugo e gamberi frutti di mare
e i suoi figli di un bronx minore li tengo come vicini di casa
nonostante la camicetta a righe biancoazzurre
i pantaloni neri stretti taglia 42
e i piedi scalzi che fanno tanto Tarantino

Alle quattro sul letto ad anticiparmi il sonno
se c’è una cosa che devo smettere di fare
è puntellarmi su coi gomiti nel cuscino
e Peppe Lanzetta lo sa sicuro
quanto mi annoio e quanto vorrei
un motorino e altra vita vita
sotto le unghie squadrate
e lui accanto che mi chiede: che fai ora, perché ti alzi e
mai ferma stai

Come gli rispondo che mi alzo per scrivere?
Gli dico che faccio il caffé
faccio il caffé che sono quasi le sei
e se c’è una cosa che devo smettere di fare
è guardare l’ora nel riflesso del vetro
due lancette su Porta Capuana Via Ponte di Casanova Piazza Nazionale Poggioreale Stadera
è domenica e la linea della vita nella mia mano
è uguale identica a quella del tram.