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La stagista volontaria

Finì lo stage e finì anche il contratto. Persi entrambe le cose senza accusare il colpo, con una mollezza di fine estate quando l’aria non è più quella del luglio di borsefrigorifero e nemmeno quella elettrica di ottobre di primesciarpe e calzini.  Ho lasciato scivolare le due cose come sassi sulla sabbia bagnata, con un tonfo sordo prima di alzare gli occhi e guardare il tramonto. In tutt’e due i casi mi ammalai prima di poter mettere per iscritto la parola fine: una febbricina di un paio di tacche superiore alla linea rossa del 37 e mezzo. Le giornate si facevano vuote prima del previsto ed io allungavo le cose da fare come si allungano le braccia appena svegli: facevo progetti, programmi, scrivevo curriculum e racconti. Mi pareva che settembre avesse senso anche così.

Prima facevo la stagista, anzi la stagista volontaria. Stagista Volontaria era diventato il mio nuovo nome e cognome perché il posto dove stavo, onde evitare una mia qualsiasi idea di rimborso spese e/o minima retribuzione economica, aveva chiarito e delineato subito il mio ruolo ponendo quell’aggettivo accanto alla mia mansione: il volontaria stava ad indicare, secondo questa logica, che mi ero scelta la morte da sola, in maniera autonoma, volontariamente insomma. Significava anche che stavo svolgendo un lavoro di volontariato e chiedere soldi, in quel caso, sarebbe stato del tutto disdicevole. L’unica volta che ci avevo provato, con le mani dietro la schiena e l’aria da scolaretta, il mio capo aveva mosso rapidamente il dito indice da destra verso sinistra a dire “No no, questo non si fa”. Sarebbe stato più appropriato il dito medio, ma comunque. Io non ero pienamente convinta di tutte queste cose e il doppio nome lavorativo accanto ai miei tre nomi anagrafici mi pareva pure assurdo ( Raffaella Rosaria Ferré Stagista Volontaria), ma ero arrivata a riconoscere nel mio lavoro un principio di solidarietà, lo stesso che usano certi boyscout quando aiutano le vecchiette ad attraversare la strada.

Tanto che quando una mattina di settembre mi svegliai in stato pessimo (mal di gola raffreddore febbre vomito mal di schiena) e le telefonate in ufficio si rivelarono inutili(te credo, sono le sei e mezza.  Sono la prima ad arrivare, tengo pure le chiavi della porta) decisi di prepararmi comunque, vestirmi comunque, pettinarmi comunque, prepararmi la borsa con il pranzo comunque. Presi in mano i trucchi ma alla seconda passata di fondotinta mi resi conto di non stare bene davvero. Quello che mi preoccupava non erano solo gli occhi lucidissimi o il naso rosso fuoco, la fronte cocente. Mi preoccupava il fatto che io,  io stagista con davanti la prospettiva di una giornata di lavoro in un ambiente ostile senza pagamento alcuno o, come si dice a Napoli, “senza manco o’ pacchetto e’ sigarette”, sentissi sulle mie spalle la responsabilità di un intero ufficio: chi aprirà la porta? chi farà il caffè? l’acqua alle piante l’ho data ieri? chi farà le chioccioline sulla posta elettronica? chi controllerà se manca la carta igienica? ho messo in ordine tutti i documenti ieri? ho svuotato il cestino? In pieno delirio presi il termometro: 38 e 7. Senza manco spogliarmi mi buttai nel letto a quattro di bastoni. Mi addormentai. Dopo  circa due ore mi svegliò il cellulare: il capo era appena arrivato e, ovviamente non poteva aprire la porta: “Incosciente, le chiavi ce le hai tu. Vieni subito a portarmele” . Ero basita e piena di febbre ma stavolta, Darwin e l’istinto di sopravvivenza mi diedero una mano: “Senti, – risposi – ma perché non vieni tu a prenderle? Io non sto bene e oggi non faccio volontariato”.

Ora lo so che vi aspettate che il capo si sia ravveduto e punto dall’ironia delle mia parole si sia presentato a casa della stagista con un pacchetiello di fette biscottate e marmellata come si usa nei paesi. Ma la verità è che la stagista volontaria qui presente si è trovata in mezzo alle scale ad aspettare che un altro collega subordinato venisse tomo tomo a prendere le chiavi. Chiavi che ovviamente non le sono mai più state concesse, neppure per chiudere l’ufficio e andare al cesso. Nello stesso momento, pochi chilometri più in là, il capo dava l’ordine di togliere il computer dalla mia postazione. In fondo il contratto di stage era quasi finito, no?

Mai Dai

Mi sono accorta d’esser diventata grande il giorno in cui ho smesso di desiderare il concerto del Primo Maggio. Non che l’abbia mai desiderato fortemente, eh, ma nel posto dove sono nata cresciuta pasciuta c’è sempre stato questo alone mistico intorno a chi, nel fatidico giorno, saliva su un treno per Roma. Il motivo credo abbia poco a che fare con la manifestazione di piazza San Giovanni e sia più strettamente legato al fatto che chiunque decida di partire dalla stazione del mio paese è un santo.

Quelli che tornavano, poi. La faccia distrutta da viveur e il discretissimo odore di fumo  sprigionato a mo’ di nuvoletta a ogni pié sospinto: ciò giustificava anche l’alone. Raccontavano storie varie di postegge e baci e accoppiamenti e slinguazzate perché dal primo maggio nascevano gli amori dell’estate, gli equivoci che tenevano banco per gli inciuci fino a settembre, cose del tipo “Luigi ha baciato Luisa pensando fosse Marta che è la sorella della sua ex Maria e se lo sa Giampiero li uccide”.

Gli amici di certi amici, poi, l’alone ce l’avevano da sempre. Stazionavano davanti a quello che all’epoca era l’unico bar con atmosfere semiquasirock del paese, non stavano seduti ai tavolini come si usa di solito, no. Non stavano nemmeno seduti al bancone, come pure mi pare si faccia normalmente. Loro stavano a terra, sui gradoni del locale, mollemente adagiati in gruppi di ottantacinque sull’unica provata panchina del posto, avevano una confidenza di luoghi e spazi, la strada era casa loro e in quest’ottica doveva sembrargli logico ostruire, di fatto, il passaggio a qualunque essere vivente. Nell’ultima settimana di aprile il traffico si faceva più intenso: il gruppetto si rimpolpava di visi e facce e bottiglie di birra tintinnanti e sigarette e canne.

Io avevo 15 anni, un jolly invicta, le felpe, le scarpette da ginnastica e il principio di curiosità classico per la varia umanità che si accalcava in poco più di 100 metri: c’erano i trentenni con la passione per il cinema francese e la fotografia b/n, l’attaccatura dei capelli che cominciava a farsi più rada; c’erano le ventenni fighissime tirate a lucido in pantaloni di pelle, il loro amore per la housemusic, Angels of Love. C’erano le adolescenti che come me, prima di me, avevano avuto faccia di cazzo abbastanza per andare a vedere questo mondo altro che si apriva fuori Porta Santa Caterina e prendeva l’autostrada.  Il mio ingresso nella società che include a fasi alterne non fu niente di che: l’età non mi permetteva che uscite pomeridiane durante le quali uno dei trentenni di cui sopra cercò di convincermi che:

  1. i cani mangiano la cioccolata;
  2. Werther non si era mai suicidato;
  3. Innuendo dei Queen non era poi gran cosa.

Capirete il mio odio.

Alla luce del palco montato nel centro di Roma, ho visto spuntare carte da 100mila per fare i biglietti del treno e balconcini di case fuorisede da cui forse possiamo vedere/sentire e genitori compiacenti che ci accompagnano con la Station Wagon e Marta e pure Cristina belle pronte a fare carte e pezzi di fumo grandi quanto tavolette di ritter sport da mettere nei caziettielli e nelle mutande così non ce li trova nessuno. Una delle adolescenti si accodò ad uno dei trentenni in partenza: un pastore tedesco amico del commissario Rex gli zompò addosso alla stazione di Napoli per tutta la roba che tenevano addosso. Suo padre si disse stupefatto. Mai quanto lei e il trentenne, suppongo.

L’anno dopo non so quale associazione decise che tutti noi gggiovani della cittadina avevamo diritto al concerto del Primo Maggio. Indi per cui nella piazza principale del paese fu sistemato un mega super schermo puntato su raitre. Il danno fu che per giorni, settimane, ogni qual volta ci si incontrava, alla domanda “Cos’hai fatto ultimamente?” bisognava rispondeva con aria vissuta: “Sai, sono stato a vedere il concertone” quando, invece, la frase corretta sarebbe stata “Sono stato a vedere il concertone in piazza della Repubblica”.

Così, forse per la mia incapacità di tollerare stronzate troppo a lungo, ho iniziato a dire, con un certo orgoglio, che no, non solo io non c’ero mai stata, ma non desideravo nemmeno andarci. Lo dichiaravo con aria annoiata, pronta a infervorarmi al momento giusto, e sentendomi, per la prima volta, ufficialmente, un outsider.  Le mie motivazioni non avevano il successo sperato: spiegare quanto mi dava ai nervi l’associazione di bandiere rosse + bandiere della pace + rock + dreadlocks + torso nudo + ragazze sulle spalle + postegge + speranze di accoppiamento + ombelico di fuori + folla oceanica uso mandria di bufali + più canne + più bottigliette di acqua e panini + presentatori + viaggio in treno dalla stazione del mio paese + ritorno + soldi che non ci stanno, non convinceva nessuno, e certe volte stancava anche me perchè erano cose che prese singolarmente, una per una, magari mi stavano anche bene.  Dopotutto ero sempre una quindicenne bionda che non sapeva dire bene che nel concerto del Primo Maggio, o forse nelle persone che vedeva parteciparvi, non riusciva a trovare che poche, pochissime corrispondenze con il tema del lavoro, della democrazia, delle prospettive di progresso sociale.

Il concertone, purtroppo, per come me lo raccontavano mi pareva una gita di quelle che si fanno per il ponte, oppure a scuola nello stesso periodo. E di queste uscite in pullman con tutta la classe, sarà una pecca ma io non ricordo il programma di viaggio di studio ma gli scherzi, l’ilarità, lo spacciare vodka al cocco per acqua e darlo da bere alla prima malcapitata, l’aspettare tale ragazzo all’uscita di tale albergo, fumando tale sigaretta con tale musica di sottofondo, come hai detto che si chiamava quella canzone?

Oggi il gruppo si è sfilacciato: alla birra e al fumo collettivi si sono aggiunte inclinazioni individualistiche come la bellezza della scrittura e l’utilizzo macchine fotografiche non digitali. Susan Sontag ci vedrebbe un bel po’ di implicazioni psicoanalitiche, io penso semplicemente che quando vivi nel sud del sud devi trovarti un minimo di occupazione se non vuoi fare la fine di Jack Torrance in Shining, quindi ben venga. Certo, il casino che sta sotto casa mia, non vi dico . In questo contesto, suppongo che il concertone del Primo Maggio rappresenti ancora una buona occupazione.