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Slow down
you crazy child.
Una canzone per giugno

Tre minuti e trentaquattro secondi bastano per dire tutto di me, dico sul serio. Ma cosa fare quando la tua canzone parla di una città che non hai mai visto?

C’è stato un tempo in cui Billy Joel faceva domande  da un 45 giri che conservavo uso reliquia. Così tanto da fare e così poche ore in un giorno, cantava Billy e chiedeva: Dov’è il fuoco? Dov’è ciò per cui vai di fretta? 

All’epoca gli avrei indicato il centro del petto, oggi farei un veloce controllo sulle agenzie, fingendo di non guardarmi le costole. Ma ero all’università e la vita funzionava come funziona sempre in quei casi, avete presente? La sveglia, le cose da fare, l’aria per riempire abissi, il tempo che ci vuole da qui alle sei, le notti in cui si usciva dal letto all’una per andare in un altro letto a guardare film francesi giocati sull’equivoco e ambientati rigorosamente in una sola stanza.

Tutti i miei amici procedevano come procedono gli ubriachi, di palo in palo, da una luce all’altra, giorni, altalene, esami, ore, cartoline. Le ho sempre spedite, continuo a farlo ancora oggi che basta un’email. Mi piace: le mando a casa – ho continuato anche quando l’unico appassionato della cosa è venuto a mancare -, le mando a chi significa davvero qualcosa nel conto dei miei giorni e le mando a me stessa.

Ho cominciato a farlo quando ho scoperto che non ne esistono di belle o brutte o tristi: le cartoline esistono e basta e sempre e comunque ti dicono di un posto in cui sei stata felice e in cui non puoi ritornare, non adesso, non subito. Sennò saresti già là (e avresti, forse, cartoline del posto che lasci).

Allora, proprio come adesso, credevo molto al potere della volontà e dei rinforzi alla volontà, altro che pali e ubriachi. Ma volontà non sentivo di averne granché. La cosa acquistava un certo fascino.

Darmi delle priorità:

  1. Volevo molto esser felice;
  2. Felice significava non avere più paure;
  3. Siccome la cosa era poco praticabile – avrei dovuto darmi al buddismo, ma sono stata troppo esposta al cattolicesimo, non funziona, è come quando fai la tinta bionda ai capelli su una base scura – allora mi ero proposta di averle tutte e di affrontarle, una per una.

Così, in una cartolina dell’epoca, sotto i versi di Billy, avevo scritto che il mare, soprattutto se in tempesta, mi avrebbe attirato sempre più della piscina. Come a dire che in piscina avrei potuto andarci solo dopo aver necessariamente naufragato (se non è morale cattolica questa, voglio dire).

vienna

Poi i ricordi hanno cominciato a rendermi prudente – che brutta cosa la prudenza -, e felice ho imparato a non dirlo più da un pomeriggio freddissimo, sarà stato novembre di almeno 3, 4 anni fa. Avevo la rittersport nella tasca dello zaino come una bambina – ci credereste? –  il cappuccio della felpa tirato su e fumavo con la testa fuori dal finestrino e fuori dal finestrino c’era il Gran Sasso.

Roba da americani la felicità, non ci sono abituato, è una cosa che si impara da piccoli, è una cosa che non fa per me“: avevo ricevuto un sms che diceva proprio così, un sms provocato, richiesto, atteso come si aspetta una confessione perché mi serve sempre un’ammissione per accettare cose che non capisco. Il potere delle parole, le mie e quelle degli altri: è una delle poche cose in cui credo, nel bene e nel male. In quel caso io con la mia rittersport del cazzo pensai a quel regista italiano, non mi ricordo il nome, che aveva dato a tutti i suoi figli, come secondo nome, l’aggettivo contento.

L’avevo letto in un’intervista: diceva che gli sembrava un augurio concreto o qualcosa del genere. Buttai la rittersport nel primo cestino del primo autogrill che trovammo in prossimità del Gran Sasso, vomitai quella che avevo già mangiato perché quando mi intristisco finisco sempre per dare di stomaco (dovrebbe chiamarsi Effetto Garcia questa cosa. In psicologia è una dimostrazione del fatto che il nostro corpo è capace di apprende l’avversione per i sapori oltre la soglia di consapevolezza; nel mio caso funziona uguale per le emozioni).

E allora, stamattina che è giugno ma sembra ottobre, stamattina che c’ho timore del pomeriggio – ce l’ho da due settimane, durerà ancora -, stamattina che dovrei darmi una regolata e scegliere, tra le cento cose da fare, quelle che voglio e non (solo) quelle che devo, per me, Billy Joel sia: slow down, rallenta, me lo ripeto da anni ed è sempre una bacchettata sulle mani, me che tranquilla lo sono solo quando decido io e di norma è un fatto preoccupante, me furestica, me culo e’ malassietto, me e tutti i nomi che mi hanno dato.

Although it’s so romantic on the borderline tonight, tonight

Ci sono sempre stati versi di questa canzone che mi sarei tatuata sui polsi, così per mostrarli alla vita, a dirle: capiamoci subito. Appunti per me su di me, ma poi quando si è trattato di farlo sul serio il mio tatuatore aveva la mappa del dolore e il polso era ben evidenziato con il colore rosso. Ho pensato: servirebbe la schiena. Ma poi il passaggio inchiostro-carne sarebbe dolore inutile, leggersi la schiena non è mica facile, può farlo solo un altro per te, di un tatuaggio del genere me ne ricorderei solo finché il rumore elettrico del motorino mi accompagna.

Too bad, but it’s the life you lead
you’re so ahead of yourself
that you forgot what you need
though you can see when you’re wrong
you know, you can’t always see
when you’re right

Mai saputo scegliere se sentirmi confortata da quanto sento vero o aver paura di sbagliarmi: la prima significa andare avanti, la seconda tornare indietro. Però tra le cose che non mi erano mai state chiare, c’era una domanda più urgente delle altre: perché Vienna? Tra tante città al mondo, perché lei?

Avevo già letto del punto di interscambio, dell’incrocio di culture, avevo anche cercato e trovato An Evening of Questions & Answers… and a Little Music in cui si racconta bene tutta la storia di un padre scappato, ritornato e, infine, ritrovato, ma di Vienna io me ne ricordo solo per un brutto romanzo e i film della Principessa Sissi trasmessi la domenica pomeriggio sulle tv locali. E per un esame di cultura mitteleuropea del mio ex e perché ci aveva studiato Carlo Michelstaedter, il Buddha dell’Occidente. E per i racconti di un amico sul freddo e sui cognacchini presi di prima mattina per riscaldarsi.

Avrei preferito Berlino, senza l’aura nostalgica, tutta avanguardia in barba al passato, e che l’avanguardismo non sia poi una forma di nostalgia. Avrei adorato Dublino, con tutto quel divertimento regolato, tutto quel vento, tutto quel tempo che cambia tanto che il fatto di non poterci fare affidamento è una sicurezza. Avrei gradito un posto in cui sono stata, Billy, dicevo, non uno in cui dovrei esser per affinità, elezione, ma che non ho mai visto, che non è mio (al solito).

Per una che conosce il fascino del nuovo e anche quello del passato, per una che non subisce più né l’uno né l’altro, ma a cui è rimasto quello del presente progressivo, l’andante, la giornata come cane che ti corre dietro, ecco, vuoi vedere che è meglio che Vienna sia ancora da scoprire?

Vienna me la dovrei lasciar per ultima, pulita, così sarà l’unico posto possibile? La verità è che non voglio che mi deluda: se succede come la mettiamo?

Vado da Billy Joel a dirgli che mi ha dato anche lei le luci e i tramonti e le mattine e i ricordi, le vhs puoi riavvolgere senza che nulla cambi davvero, la vita che passa e a metterla da parte si diventa solo più saggi o più soli – si è sempre soli un’ora di troppo – , o forse semplicemente più cattivi, prima di tutto con se stessi? Billy Joel risponderebbe, sempre e comunque, slow down you crazy child. E avrebbe ragione, ancora una volta.