Il ragazzo che sei stato
A mezzanotte e venti del 25 dicembre, secondo i piani, il Jumbo ha compiuto il suo mezzo giro sulla città e poi è sceso, disegnando semicerchi nel buio. Le linee delle strade si sono fatte riconoscibili, si è potuto dar loro un nome, i passeggeri hanno potuto chiamarle per avvicinarsele alla memoria in tempo per l’atterraggio. “I piloti sono dei padri”: il ragazzo che sei stato amava dirlo, lo faceva piazzandoci sotto un sorriso appuntito che teneva in bilico le parole; in quest’occasione si è limitato a stirare i piedi in avanti per riattivare il flusso del sangue, chiudere gli occhi, reclinare la testa sui seggiolini rivestiti di una brutta tappezzeria verde acido per l’ultimo regolato sonno. “Il volo è una sospensione della vita, per questo scelgo solo viaggi lunghi”: amava dire anche questo la versione giovane di te, ma stanotte, a venti minuti dall’inizio di un nuovo giorno ancora pesto, si è limitata a pensarlo come si fa con il ritornello di una canzone di cui si vuole esser certi, prima di cantare.
Non ricordi più se ad infastidirti è stato il colore o la trama o il tessuto, ma alla partenza ti sei quasi rifiutato di sederti al tuo posto: sei fatto così e lo sai, salti per un niente, ma piuttosto che ammettere d’essere turbato da qualcosa che non provenga dal tuo animo, ti faresti torturare. Gli altri non hanno potere su di te se sei abbastanza bravo da non avere reazioni. Ora che il viaggio t’ha dato la possibilità di apprezzarne altre doti oltre le carenze estetiche, il sottile massaggio alla nuca, il calore elettrico della fibra sintetica, sei quasi grato alla tua poltroncina su questo aereo di linea, il letto che ha accolto un riposo venuto prima della fatica. O forse hai solo l’età in cui si smette di ribellarsi alle cose e si punta tutto sull’abitudine. “La vita è roba semplice quando impari che è fatta di tempo, e il tempo passa”, hai detto a Lisa, e lei ha riso: s’era messa su un prendisole di cotonina bianca che non ricordi più se lei ha portato tu dalla Grecia o se lei, andata in Grecia con gli amici, ha portato con sé al ritorno, per fartene dono, non in senso letterale, s’intende, ma ha questo modo di fare lei, sembra indossare vestiti per il puro gusto di mostrarteli, una specie di appendiabiti umano, una gruccia, la donna che hai accanto da tre anni, un corpo su cui tracciare i cambiamenti della moda quando sei stanco di leggere i tuoi sulla tua pelle, davanti allo specchio, mentre ti fai la barba e il ragazzo che sei stato ti saluta da un punto non meglio definito, in alto a destra, nel tuo campo visivo. Ultimamente non succede spesso, non sai se è il tuo campo visivo ad essersi ristretto o se è il ragazzo che ha cominciato a scaglionare visite come un’amante che non sa dirti che è finita, anche se lo è.
Il ragazzo che sei stato ha detto a mezza voce “tangenziale”, “porto”, e ancora, “piazza” e “via” , hai riaperto gli occhi e ti sei accertato che le cose che aveva appena nominato, sorpreso di trovartele ancora sotto la lingua come soldi dimenticati nella tasca di una giacca, fossero ancora fuori dal finestrino. Erano ancora tutte lì, in fila, come per un appello. Non hai riso, non hai fatto nulla: è la tua specialità. L’aereo si è abbassato ancora, ha rullato sulla pista e si è fermato. Il pilota ha parlato attraverso gli altoparlanti ed ha augurato buon Natale: “E’ un padre – hai pensato – ma io non ho più l’età per esser figlio. Probabilmente non l’ho mai avuta”. Ci sono coordinate invisibili anche ai pochi che potrebbero notarle e la lacrima che ti è scesa dall’occhio sinistro non l’ha vista nessuno, non l’uomo che ti sta seduto di fianco, non la hostess dai capelli rossi, dubiti di averla sentita pure tu, quindi possiamo dire di lei che non è mai esistita.