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Le 3 canzoni di Sanremo utili ai fini di un’edificante vita sentimentale

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità, con una serie di riferimenti alla cultura popolare italiana e alle sue implicazioni sociali, una roba alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust , pronunciando solo ed esclusivamente una frase e cioè: “trottolino amoroso dududù dadadà” 

 

Posizione n.3 –  Fausto Leali e Anna Oxa, Ti lascerò, anno 1989 

“Ti lascerò” condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dagli 8 ai 15 mesi se va tutto bene. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia a cui vi accompagnate ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Posizione n.2 – Mietta, Canzoni, anno di grazia 1989 pure lei 

Questa è una specie di misura di emergenza se non avete applicato la regola di cui sopra e nonostante le complicazioni sentimentali subdorate siete rimasti lì fermi a mordervi l’interno della guancia per non urlare mentre il tizio/la tizia a cui (forse, non sa, non risponde) vi accompagnavate fa finta di niente (tratto distintivo degli psicopatici). “Canzoni” è, in pratica, una sorta di mantra che andrebbe ripetuto davanti allo specchio prima di vedere lui/lei e mandarlo a quel paese dicendo: “taratatatatà”Molto spazio è lasciato anche all’autocommiserazione, quindi non preoccupatevi e ascoltate la cara Daniela Miglietta, molto credibile in qualità di rappresentante della trentenne che non si è ancora liberata del nomignolo adolescenziale e che siccome non ha capito ancora bene cosa vuole dalla vita nell’attesa concentra tutti i suoi sforzi nel chiedersi se è qui per piangere, ridere o farsi una foto (per poi dire di meeee, tra qualche tempo di meee).

Posizione n.1 – Amedeo Minghi e Mietta (di nuovo), Vattene Amore, anno 1990

Partiamo dalla coppia, formata dal maestro Minghi assurdamente somigliante al tizio di Ladyhawke e Mietta, decisamente più caruccia dell’anno prima, sul genere bellezza del sud costretta dalla moda e da un parrucchiere dal gusto opinabile ad avere due spalle da giocatore di rugby e la testa più ingellata di Fiorello ai tempi d’oro del Karaoke. Nonostante lui sembri un’aquila rapace e lei la copia a stampante a getto di Monica Bellucci prima di farsi le sopracciglia, la cosa funziona. E questa già è una grande cosa quando si parla di sentimenti, amore, vattene, resta, torna qui, non intendevo, non hai capito, ho capito tutto, capisco e da capo. Non siamo ai livelli scandalosamente maturi del “Ti lascerò“ di Anna Oxa e Fausto Leali, canzone alla quale si potrebbe praticamente rispondere con un “bene, se smetti anche di comportarti da stronzo siamo apposto” e nemmeno a quelli da emotivi anonimi di “Non amarmi” con tutto quel discutere, per mesi, del se Aleandro ponesse come conditio del suo non sentimento il vivere a Londra o all’ombra.

“Vattene amore”, pur inserendosi nella schiera delle canzoni sull’impraticabilità tecnica della cosa amorosa tra uomo e donna, non è una palla stratosferica fine a sé stessa che annuncia il perdurare dello stato amoroso al punto di lasciare l’altro per permettergli di fare le sue stronzate senza sensi di colpa né tantomeno pone l’innamoramento tra due esseri come abilitazione al volo mentre gli altri sono fermi, sola in questo cielo non lasciami. Il duo Minghi-Mietta, si prende poco più di 4 minuti per dire chiaramente che non sa cosa cazzo fare per risolvere la cosa.  Applausi.  

Il mirabile esempio è fornito sin nell’attacco del pezzo: quel “Vattene amore, che siamo ancora in tempo, credi di no? Spensierato, sei contento!” assomiglia molto al nostro “Tu tieni la capa a fare bene e qua stavamo scarsi” e lo sguardo di Mietta lo conferma. La paranoia andante del “perderemo il sonno, credi di no? I treni e qualche ombrello, pure il giornale leggeremo male” è più esaustiva di qualsiasi domanda sui forum di Alfemminile.it. Il fatto è che i due, tutti e due, non uno di più e l’altro di meno, esplicitano benissimo le complicanze di questa cosa chiamata relazione reciproca: un articolo di Repubblica del giugno 1990 ci conferma che la coppia aveva qualche difficoltà anche nella realtà fuori dalla canzone e la discussione pare sia andata avanti fino al 2008 circa.

Non gli volete bene solo per questa cosa di fornirsi il copione a vicenda? A parte il fatto che tutti quei maaaaaaaaaai e quei nooooooooi possono ricordarvi, alternativamente, Kate Bush in Wuthering Heights o vostra mamma dal balcone, sapete che leggere il nome dell’amato su un cartellone che fa della pubblicità sulla strada per me è un fatto riconosciuto dai linguisti con il nome di “preattivazione di un comando”? Il fatto che ci sia una canzone su tutto ciò mi fa sentire meno sola, per dire. Bisognerebbe poi dare il giusto spazio al “vattene”: la triplice possibilità di interpretazione  – ovvero  il vattene finto minaccioso scherzoso, il vattene vieni qua e il vattene vattene – dovrebbe fornirvi materiale abbastanza per preferire sempre una conversazione diretta con il vostro amato in luogo di sms, whataspp, email, messanger e via dicendo.

Vattene amore”, insomma, è una canzone bellissima ed esplicita anche un grande drammone sottinteso. Cos’è meglio sembrare, quando avete il cuore a pezzi? 

Voler bene a Paola Turci ( come ne vorremo un giorno a noi stesse)

Ho sempre creduto che Paola Turci fosse stata troppo e ingiustamente sottovalutata e che non le fosse stato riconosciuto il giusto e sacrosanto merito. Poi Paola è andata – meglio, è tornata – a Sanremo e ha fatto come fanno sempre le donne quando non c’hanno tempo da perdere: ha messo un po’ in ordine le cose, e via. E io l’ho adorata come al solito, più del solito.

(in foto, Paola che ristabilisce l’ordine delle cose)

Da quel momento ho scoperto tantissimi altri – in alcuni casi insospettabili – innamorati come me di questa forza della natura. È come se lei stessa c’avesse dato il permesso di venir fuori. Voglio ben dire: Paola Turci ha tutto. Ha la rabbia, la dolcezza, il rock, la storia, la voce, la musica, il modo, il portamento. Ha la forza.

E oggi  viene a Napoli a presentare “Il Secondo Cuore”. E siccome qui non ci facciamo mancare niente, deve vedersela con Napoli-Juventus, il ritorno.

(Sì, lo so che la presentazione del disco è alle 6 e la partita non comincia prima delle 9 meno un quarto, ma in questa città vige una sorta di coprifuoco preparatorio ai grandi incontri che prende 2 ore minimo: quelle di impazzimento mentre esci da lavoro/tenti di far la spesa/rinunci e ordini una pizza/cerchi un modo per tornare a casa mentre ci provano anche tutti gli altri/ci torni davvero e chiudi la porta su una città che sembra in preda ad una crisi isterica che culminerà in un religioso, dormiente silenzio. Se va tutto bene, sarà interrotto da un paio di urla spaccatimpani e dal citofono della consegna a domicilio. Se va male non lo dico neppure. Vi basti sapere che potrebbe anche succedere che la pizza, il ragazzo delle consegne, il pizzaiolo, si sperdano per la via anche se dal negozio a casa mia stanno sì e no 200 metri)

Di seguito, però, una dichiarazione: partita o meno, oggi dovremmo andare tutti e tutte a stringere la mano a questa donna. E io lo farò.

Perché bisogna voler bene a Paola Turci come ne vorremo un giorno a noi stesse. Bisogna voler bene alla sua voce, non solo quando canta. Bisogna voler bene alle sue parole, non solo quando sono in una canzone. Bisogna voler bene alla sua faccia, adesso e prima – c’è un adesso e un prima ma solo per il tempo, sì – come alla nostra, perché ci ricorda cose che altrimenti perderemmo. Cose che altrimenti non sapremmo manco più. Tipo che ciò che accade è come luce sulla pagina di un libro: ne può rendere accecante una metà, troppo scura l’altra. Tipo che la storia scritta su quelle pagine non cambia o si ferma per questo. Che la storia va avanti e prosegue nonostante questo. Che luce ed ombra passano entrambe e che scrivere – e cantare – è un modo per vivere, uno dei tantissimi possibili.

Io gliene voglio già: un gigantesco “forza” per ogni santa volta che l’ho vista in tv o l’ho ascoltata in radio o ne ho cantato una canzone e poi un’altra e poi un’altra ancora, tipo ciliege, tipo ieri e ieri c’è stato un momento in cui non volevo sentire nemmeno mia mamma. Sono orgogliosa di lei, ma non orgogliosa e basta, no: proprio quella cosa che tu pensi, di una donna come te, che è bellissima, che è una potenza, che c’ha la forza di una che si è detta da sola le cose peggiori, ha avuto le paure più terribili che si possano avere, e poi si è detta: beh, vuoi aggiungere qualcos’altro?

Quando una donna c’ha questo tipo di spirito o di ironia, come fai a non fare il tifo per lei. A non vedere la grandissima guerra combattuta ogni giorno per non diventare una povera stronza (tante di noi lo diventano, non se ne accorgono neppure, dico davvero). A non dirle: oh, grazie, seriamente, per non aver mollato. O per aver sempre ripreso.

Ecco, io non so se queste cose riuscirò a dirgliele davvero oggi che ce l’avrò vicina in linea d’aria. Spero di sì. Però intanto, intanto, ascolto lei e la lascio ascoltare anche a voi, in una playlist piccolissima ma che è quella che mi ripiglia ogni volta e magari ripiglia anche voi.

  • L’uomo di ieri. Questa è una canzone del 1986, la sua prima incisione discografica e il modo in cui guardo io a certi uomini – in questo periodo ad uno in particolare -. Comunque: “Era un uomo così, ma con delle possibilità. Lo so io” non è la frase riassuntiva per ogni ex che meriti il titolo?
  • BambiniNon ve lo devo dire io, no. Ma questa canzone potrebbe esser uscita ieri pomeriggio, più o meno quando abbiamo cominciato a guardare le foto che arrivano dalla Siria. Nel video, Paola fa una cosa bellissima oltre ad essere se stessa: ribadisce chi c’è con lei a far quel miracolo sonoro. Le notazioni personali, in questo caso, sono due. La prima: ascoltare “Bambini” mentre sei una bambina ti fa sentire come se potessi tutto, tu, quella a cui la vita dice che non può niente; la seconda: è grazie a questa canzone se a 7 anni sapevo già chi fossero i desaparecidos.
  • Ringrazio Dio. Canzone consigliatissima se vi hanno mollato e vuoi vedere che hanno fatto una cosa buona? È la forza di una preghiera di cui non so scandire le parole, gettata contro i muri. E comunque: “al mio uomo che è fuggito via, nemmeno un po’ d’affetto!”.
  • Stato di calma apparente. Mettiamola così: se cresci sapendo benissimo di mostrarti fuori tosta come al solito mentre dentro ti senti una sorta di spettatrice di vite – la tua, quella degli altri – in “un continuo adattamento alle curve e al sentimento”, il tuo stato è proprio questo qui.
  • Ti amerò lo stesso. Per questa canzone ci sono due link: quello della prima versione ufficiale, quello di una privata in cui succede una cosa bellissima (lo capirete se guardate e crederete all’esistenza della bellezza). Personalmente, in mezzo ci sono io e c’è – anche in questo caso – un uomo. Una storia, se preferite non scomodare l’amore. “Ti amerò lo stesso” è, comunque, anche amare lo stesso se stessi “nonostante veda quanta vita facile, quanto amore docile precipita l’immagine della nostra storia, se ti sembra dura ed invincibile davvero”.
  • Io e Maria. L’ha scritta Carboni, se non ricordo male. E Paola, oh, vedi Paola, io non ho più voglia di farmi prendere il giro dalla primavera, soprattutto da quella di Napoli che è una piccola scostumata che entra senza bussare, ma a te aprirei la porta e ti farei un caffè senza chiederti niente, sperando che ad un certo punto sia tu a dire “dai, tiriamoci su, non vedi è primavera”.
  • Volo così. Il verso “E mi riprendo i sogni, le speranze, le illusioni e tutto quel che sai di me; io mi riprendo questo amore in tutte le versioni e ricomincio a vivere”. Il modo in cui è cantato questo verso – poiché cantare è ribadire una possibilità -. Niente, mo me la sento un’altra volta (ed è la terza da stamattina).
  • Quasi settembreAspetto la fine di agosto per questa, come una volta si aspettavano i temporaloni a segnalare che la fine delle vacanze era sì un fatto difficile, ma ne era tempo. Nel verso “e alla fine del viaggio arrivava il domani dentro un abito bianco come una sposa da sola verso l’altare” sono rintracciabili ragioni a supporto di varie cose che ho fatto, da sola, verso l’altare.
  • Attraversami il cuore. Sottoscrivo, firmo e dichiaro: “per uno che ci riesce, mille ci provano all’infinito”. E comunque: “io non so fino a dove ci porteranno i nostri sogni ma so che fino a quando ci parleranno d’amore, continueranno a fiorire stagioni” e questa è una delle poche cose di cui sono certa stamattina.
  • Per finire, senza dir niente in merito che è già tutto abbastanza chiaro, “Fatti bella per te”. Ci arriverò Paola, davvero: Napoli-Juve, amori e amorazzi, uomini di ieri e di oggi, bambini e voli, se provo a perdonare il tempo passato, ritrovarmi in una foto e ammettere di essere più bella, lo si deve anche al fatto che ci hai provato tu, prima di me. E ci sei riuscita. 

Baci e forza Paola, forza Napoli.

PS personale: una persona cara mi dice che dovrei scrivere di libri come scrivo di musica. E niente, ci arriveremo tra qualche settimana, quindi: stay tuned!

Sanremo: 5 canzoni da conoscere per fare il tipo sui social

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità con riferimenti alla cultura popolare italiana e le sue implicazioni sociali alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust pronunciando solo ed esclusivamente la frase “trottolino amoroso dududù dadadà” che se ci è riuscita Maria De Filippi potete farlo pure voi.

Un tempo la prima regola dello spettatore del Festival di Sanremo era non dire a nessuno che hai visto tutte e 5 le serate del Festival di Sanremo. Tipo Fight Club, ma con Pippo Baudo al posto di Tyler Durden. (in foto, eccolo mentre sventa un tentativo di ricerca del proprio animale guida). 

Un tempo, quando ti piaceva una canzone eseguita rigorosamente per la prima volta sul palco dell’Ariston, le opzioni erano due:
a) un Mixed by Erri su cassetta verdognola;
b) registrazione homemade su Tdk da 90 minuti dopo scandagliamento su frequenze radio;
L’ascolto, in entrambi i casi, era a volume bassissimo nel tuo walkman, sia mai che qualcuno, sull’autobus che ti portava al liceo, avesse l’udito fine.

Un tempo, l’unica ammissione possibile era la super ospitata dell’artista straniero di tendenza: Madonna che canta “Take a bow” nel 1995 imbardata come la Signora Coriandoli. O i Take That – perdonatemi, è un ricordo personalissimo- che nel 1996 rispondono alle domande delle fans in deliquio me compresa ma muta, seduta a terra nel salotto di casa sotto lo sguardo perplesso di mio padre, il dito indice pronto al rec su vhs, inconsapevole del fatto che un giorno avrei trovato tutto su YouTube.

Eccovi un video del momento in cui il mio cuore adolescente ha fatto crack per la prima volta. Dite ciao. Per approfondire la sua conoscenza, cliccate pure qui

Chi prendeva un treno e si portava in Liguria, nella stragrande maggioranza dei casi ci era costretto. O aveva meno di 20 anni, aveva visto molte volte “Sposerò Simon Le Bon” e pensava che scapezzarsi e spezzarsi una coscia appresso ad un tizio che sta sui poster del Cioé fosse una cosa estremamente romantica nonché il primo necessario atto per una vita sentimentale edificante (poi ci chiediamo perché stiamo messe come stiamo messe).

Insomma, un tempo, come avrete capito, Sanremo era un fatto da sfigati costretti al ludibrio acustico dalla scarsa controprogrammazione, non c’era Netflix e, soprattutto, soprattutto nessuno faceva team per commentare pubblicamente il vestito di tal dei tali, la faccia messa malissimo di un big che ha ormai superato i 50 e l’abbronzatura di Carlo Conti con hashtag apposito. Adesso ho gente che mi chiede se anche quest’anno a casa mia si fa la diretta social. Sì, la facciamo. Ovvio. Però, a parziale risarcimento del mio cuore adolescente infranto, bisogna che siano ristabiliti alcuni equilibri cosmici.

Perché per commentare davvero Sanremo e fare il tipo/tipa su twitter e facebook, ci sono delle canzoni misconosciute che bisogna conoscere fino all’ultima nota parola fraseggio mirabilmente diretto da maestri quali Beppe Vessicchio. Cominciamo.

Margherita non lo sa, Dori Ghezzi, Sanremo 1983 

Qualche tempo fa ero in un locale milanese, nome “C’era una volta una piada” e anno percepito 1980 e rotti. Partì questa. Mezzo locale canticchiava, e anche io. Non so come e perché la conosco, all’epoca dell’esibizione dovevo avere una settimana di vita al massimo. Però Margherita che continua a non trovarsi nello specchio, veste male, dice “niente di speciale” e si nasconde dietro un’altra sigaretta su ritmo sincopato, ecco: di quante di noi è un identikit affidabile?

Donatella Milani, Volevo Dirti, 1983 ancora 

Rivalutate la cara tizia che si presenta in tuta verde e gialla, cespuglio in testa, ammette “ho fatto l’amore con te senza chiederti niente di me” e si classifica al secondo posto. È vostra amica in casi di capate sentimentali, friendzone e appuntamenti presi su Tinder. Al pari di “Amici come prima” di Paola e Chiara, Sanremo 1997.

Anna Oxa e Fausto Leali, Sanremo 1989

 

Lo o che questa canzone è conosciuta sicuro più delle altre, però un ripassino fa sempre bene. Ho scelto questa coppia che se l’è giocata alla grande coi Jalisse, Sanremo 1997  perché condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dai 6 agli 8 mesi. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia che le comporta ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”. L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Rudy Marra, Gaetano, Sanremo 1991

Molto prima di Calcutta, c’era lui, una specie di Luca Carboni sfortunato che canta “e adesso c’hai un figlio Gaetano, e adesso a lui che cosa gli diciamo“. Trovate Rudy Marra, ditegli che non è colpa sua se all’epoca l’indie non era di moda.

Antonella Arancio, I ricordi del cuore, anno del signore 1994:

Questa è la canzone che racconta con dovizia quello che penso ogni volta che mi prende male nonché il mio intero 2016. Se l’avesse cantata Laura Pausini sarebbe stata un classico mondiale. Invece la cara, dolce Antonella con il cocco nei capelli (la cofana l’avrebbe riportata in auge solo Amy Winehouse) gli orecchini a forma di crocefisso (si portavano, non fate finta di no) e il completo camicia bianca + gilet con gli alamari, dopo averla incisa in spagnolo – Recuerdos del alma – e aver avuto ottimo successo in America Latina è scomparsa.

Alessandro Mara, Chiara, Sanremo Giovani 1995 

Parlo a te, ragazza che all’epoca era nel meglio dell’adolescenza e adesso c’ha trent’anni and so on. Pensavamo che Alessandro Mara ci avesse fatto la radiografia. Pensavamo che Chiara che si nota tra la folla/ Chiara che ha imparato a stare a galla fosse la migliore versione che potevamo dare di noi stesse. Pensavamo, soprattutto se nate nell’hinterland vesuviano, che si parlasse di noi al verso “un fiore di campo in cima ad un vulcano“. Ancora oggi ci chiediamo: “è un dono o un difetto essere trasparente?”. Cercasi uomo capace di mettere tutto in musica.

Bene, ci avviamo alle conclusioni. Che sono:
1) Se conoscevate queste hit prima di questo post, siamo anime potenzialmente affini;
2) Se ve ne vengono in mente altre, tipo i Quinto Rigo con Bentivoglio Angelina, siete in buona compagnia.
3) Se dovessero porvi la domanda più in voga degli ultimi anni, e cioè: “Perché Sanremo è Sanremo?” con fare ironico o leggermente perculante, c’è solo una risposta possibile. La sapete già.

È: Ta da dan!